Assange e il senso del “cypherpunk”

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È in preparazione l’attacco “chirurgico” alla Siria da parte degli Stati Uniti. L’ultima sequenza armata di una guerra da tempo in atto, quella che usa e attraversa la comunicazione nell’era digitale. Colpisce che solo ora diversi commentatori abbiano colto le polarità negative della dialettica presente nella magia tecnologica. Sorvegliare e controllare è la premessa per l’azione militare: e qui buoni e cattivi si confondono, come nell’«Armata a cavallo» di Jancsó, dove i soldati si scambiavano le divise…
La globalizzazione contiene dentro di sé diversi aspetti autoritari e la rete, pur ricca di opportunità democratiche, «è stata trasformata nel più pericoloso contributo al totalitarismo che si sia mai visto». Così recita un passo dell’introduzione dell’inquietante (e ricco di spunti) volume di Julian Assange -la mente di WikiLeaks, nascosto e ricercato ma candidato al senato australiano – «Internet è il nemico», edito nel giugno scorso da Feltrinelli. Forse di maggiore coerenza con il testo il titolo originale Freedom and the future of the Internet, ma davvero utile l’edizione italiana. Perché emerge una riflessione tutt’altro che banale o di mero estremismo sovversivo sulla condizione della conclamata età digitale. È un dialogo serrato tra Assange e altri «guru» del dibattito e del movimento «cypherpunk», vale a dire l’uso sistematico della crittografia come strumento difensivo contro il (vero) grande fratello. Gli interlocutori -Jacob Appelbaum, Andy Müller-Mauuhn e Jeremie Zimmermann- concordano sui rischi gravissimi cui è esposta la libertà.
È la stessa filosofia tecnica della rete a prestarsi a forme intrusive e censorie, mentre la militarizzazione del cYberspazio fa sì che ognuno di noi abbia un soldato sotto il letto. Naturalmente così si realizza un altro capitolo del divario digitale, essendo la trasparenza imposta a tutti mentre solo ai potenti è riservata la massima tutela della privacy. Assange chiede di rovesciare l’ordine degli addendi, restituendo il rispetto per la vita quotidiana delle persone semplici. La linea suggerita dal volume è forse troppo semplicistica e ai confini dell’ingenuità: la riservatezza non è certo tutelata neppure dalla più accurata crittografia, come ci insegnò il grande Turing (la cui memoria rimossa per la dichiarata omosessualità fu riabilitata nel «civile» Regno Unito solo nel 2009) che, oltre ad aver «inventato» il moderno computer, riuscì a decrittare i codici segreti nazisti. Tuttavia, Assange e colleghi ci illuminano sulla enormità di una delle devastanti contraddizioni della post-modernità: la fantastica espansione del potenziale informativo e l’occupazione privata del suo tessuto nervoso. I vari programmi del rinnovato «panopticon» messi in atto dalla National Security Agency insieme alle consorelle impiccione esigono l’attivazione di effettivi contropoteri. Organismi democratici -in Italia l’Autorità per i dati personali, dovrebbe- sono indispensabili per tutelare i diritti di cittadinanza nella società informatica. È un vero scontro di potere, perché l’utilizzo a piacere dei dati fraudolentemente raccolti fornisce armi letali di ricatto.
Ecco perché spunta sempre la tentazione di imbrigliare la rete e sottoporla anche ufficialmente a filtri censori. È un paradosso di questa benedetta-maledetta ipermodernità, in base al quale niente deve rimanere riservato, ma guai a passare file e notizie imbarazzanti. Il caso Manning insegna. Come quello di Snowden. La strategia del controllo e il dosaggio del segreto sono un pezzo cruciale dell’involuzione dei governi alle prese con un universo che non sanno comprendere e che quindi suppongono di tenere a bada. La provocazione del libro di Assange non è isolata, vista l’autorevole lettera aperta di alcune importanti personalità di Internet sulla necessità di aggiornare regole e criteri di approccio. Nel 2005 ad Atene nacque l’«Internet governance forum» sotto l’egida dell’Onu. Nei primi anni lo coordinò in Italia Stefano Rodotà. Poi il governo di Berlusconi decise di farne a meno. Assange ci ripropone la questione. È proprio una cosa seria.

da “Il Manifesto”


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