Per quanto possa sembrare una contraddizione in termini (e in parte lo è), il compito che il Partito Democratico ha di fronte, da qui al Congresso e possibilmente anche dopo, è proprio quello di ricostruire un progetto umano, politico e civile che, nei fatti, non è mai nato. O forse è nato ma, come sostiene qualcuno, non ce ne siamo accorti, presi come eravamo dalle nostre discussioni interne, dai nostri contrasti, dalle nostre beghe di corrente, dal nostro continuo dibattere sul nulla o, peggio ancora, su regole, albi, Primarie aperte, Primarie chiuse e tutta una serie di argomenti che non riguardano in alcun modo la vita di quei milioni di cittadini che pure avevano guardato a noi con speranza e adesso ci hanno abbandonato.
Perché questa è la vera, grande sfida che si pone davanti ad un partito che negli ultimi mesi ha commesso tutti gli errori che era possibile commettere e oggi si ritrova a far parte di un governo innaturale, sorretto da una maggioranza estremamente eterogenea e purtroppo, almeno finora, meno produttivo di quanto, nonostante tutto, sarebbe stato legittimo aspettarsi.
Il guaio, ed è questo il punto sul quale dobbiamo riflettere, è che non è mancato affatto il PDL: il PDL sta recitando al meglio la propria parte, col personale politico che tutti conosciamo, i suoi falchi e le sue pitonesse, le sue sparate, la sua difesa a spada tratta di Berlusconi, i suoi attacchi contro la magistratura e le sue dosi massicce di populismo e di demagogia.
Se c’è un partito che non ha fatto la propria parte, dunque, siamo stati noi, paralizzati dai nostri veti interni, dalla nostra mancanza di coraggio, dalla difficoltà di dialogare e persino di confrontarci fra di noi, giustificata dai più benevoli con la motivazione che il gruppo parlamentare è particolarmente vasto ma, secondo noi, dovuta alla totale assenza di un progetto e di una visione comune della società e del futuro.
E qui, per quanto sia antipatico auto-citarsi, torna in scena un concetto di cui ci siamo occupati già altre volte, ossia l’incomprensibilità dell’azione politica di un soggetto senza ideologia, senza una posizione chiara quasi su nulla, senza una direzione di marcia e senza un accordo tra le sue mille anime su cosa vogliamo essere veramente, quali interessi intendiamo difendere, quali categorie intendiamo rappresentare, a quale famiglia europea desideriamo appartenere; il tutto in nome di un’irrealizzabile rappresentanza onnicomprensiva che ci ha portato a perdere tanti voti a destra (in direzione Scelta Civica) e altrettanti a sinistra (in direzione SEL o Rivoluzione Civile ma, soprattutto, Movimento 5 Stelle).
Per questo, sono in piena sintonia con Alfredo Reichlin quando afferma che, al momento, non è ben chiara la ragione di questo Congresso: un appuntamento che, all’indomani del disastro compiuto sull’elezione del Capo dello Stato, molti autorevoli dirigenti avevano presentato come rifondativo, rigenerativo dell’idea stessa del Partito Democratico. Sono trascorsi mesi, è stata costituita una segreteria provvisoria, ma dell’afflato iniziale si sono perse le tracce.
Così ci ritroviamo nella tremenda condizione di avere un esecutivo che riesce a fare poco ma che abbiamo il dovere di sostenere nell’interesse del Paese e nell’impossibilità di tornare a votare con questa legge elettorale, un partito sfibrato e dilaniato da lotte di potere che rischiano di condurlo al collasso definitivo e persone di buonsenso come il ministro Franceschini che da mesi tentano, inascoltate, di mettere in guardia l’intera compagnia circa il rischio di una possibile scissione.
Senza dimenticare Matteo Renzi: un argomento che è arrivato il momento di affrontare con la dovuta schiettezza. Sul fatto che sia una risorsa, non c’è alcun dubbio; come non c’è alcun dubbio che, in questo periodo di crisi generale della politica, sia un punto di riferimento e un leader riconosciuto da milioni di italiani. Il problema è che spesso il sindaco di Firenze dà l’impressione di considerarsi l’unica risorsa che ha a disposizione il PD, dimenticandosi di alcuni concetti elementari che è opportuno ricordare: innanzitutto, il Partito Democratico è un collettivo e come tale ragiona e si comporta; in secondo luogo, di risorse altrettanto valide ne abbiamo in ogni circolo e lui ha in più solo una capacità comunicativa e una notorietà non indifferenti; infine, il segretario e il premier sono due mestieri diversi perché il primo ha il compito di prendersi cura di un malato che due mesi e mezzo fa ha rischiato di morire mentre il secondo deve essere una personalità capace di rivolgersi a un contesto sociale più ampio rispetto al partito, andando a prendere i voti di quei famosi “delusi dal centrodestra” che nessuno di noi ha mai detto di non volere.
Ciò che ci separa da Renzi, pertanto, non sono gli obiettivi quanto la via da percorrere per conseguirli. Per l’intraprendente inquilino di Palazzo Vecchio, prendere i voti degli ex berlusconiani che hanno smesso di credere alla “rivoluzione liberale” è un imperativo categorico; per noi è una missione. Da qui nascono le divergenze all’interno del PD, visto e considerato che nessuno di noi intende ostacolare la corsa dell’ex “rottamatore” ma nessuno di noi è nemmeno disposto ad accettare l’idea di un partito aeriforme e inconsistente, che non produca classe dirigente e si metta a inseguire il modello grillino o, peggio ancora, quello teorizzato da alcuni falchi del PDL, con le conventions al posto dei congressi e il leader carismatico, naturalmente “solo al comando”, al posto di un segretario a termine.
Per non parlare poi della battaglia sulle idee e sui linguaggi da utilizzare, perché non c’è niente di male, anzi, nel voler conquistare i voti di chi le altre volte ha votato a destra ma bisogna capire che non si otterranno mai quei consensi continuando a proporre lo stesso modello di società, continuando ad elogiare il cancro del liberismo, continuando a teorizzare il lavoro flessibile quando ci sono oramai due generazioni, se non tre, strangolate dal precariato e sancendo così la definitiva affermazione del berlusconismo, in grado a quel punto di sopravvivere alla conclusione della carriera politica del suo fondatore.
Per far breccia nei cuori di chi finora ci ha voltato la spalle, secondo noi, è necessario tornare a porre il tema dell’austerità nel senso berlingueriano del termine, ossia intesa come sobrietà e sviluppo sostenibile, equa distribuzione delle risorse, lotta alle disuguaglianze e ripudio della incultura dello spreco e del consumismo sfrenato. E ancora: la difesa dell’ambiente, la green economy, la valorizzazione dell’istruzione e della cultura (vedasi alla voce Pompei), della ricerca, dei diritti degli immigrati e dei minori, dei lavoratori, degli studenti, dei nuovi italiani, degli omosessuali e di ogni forma di diversità che, per chi si professa di sinistra, non può che essere il caposaldo di un modello di sviluppo radicalmente alternativo a quello che abbiamo subito negli ultimi tre decenni.
In poche parole, e mi auguro lo capiscano tutti i candidati alla segreteria, compreso eventualmente Renzi, per tornare ad essere credibile il Partito Democratico deve tornare al proprio posto: a sinistra, tra i socialisti europei, nella famiglia progressista che in questi anni abbiamo frequentato con eccessiva timidezza.
Se così non dovesse essere, se qualcuno dovesse continuare a illudersi che basti essere simpatici a una parte della destra per vincere le elezioni, oltre a non vincere le elezioni per i prossimi dieci anni, ci trasformeremmo in un non luogo, talmente fragile e indefinito da non riuscire a imprimere alcuna svolta a questo non periodo.