La seguente lettera è stata scritta a più mani da un gruppo di richiedenti asilo pakistani dell’associazione Laboratorio 53. Stanchi ed umiliati dai continui respingimenti delle loro domande di asilo politico, hanno deciso di uscire pubblicamente e far sapere quello che non sono più disposti a tollerare: Il Pakistan è veramente un Paese in pace come viene dichiarato? Come associazione supportiamo le loro voci e richieste e nei prossimi mesi continueremo ad agire affinché il loro diritto alla protezione internazionale venga garantito.
Pakistan: un Paese in pace? Lettera aperta
Gentile Presidente della Camera Laura Boldrini,
ci rivolgiamo a lei ricordandoci del suo impegno come portavoce dell’UNHCR per l’Italia nella difesa dei richiedenti asilo politico; confidiamo che l’alto ruolo istituzionale che ora ricopre sia importante per portare all’attenzione della politica e dell’opinione pubblica il nostro dramma che troppi ignorano o fanno finta di ignorare. Nello stesso tempo vogliamo parlare a tutti coloro che vorranno leggerci. Siamo un gruppo di richiedenti asilo pakistani che vivono a Roma, nel CARA di Castelnuovo di Porto in altri centri comunali o per strada. Abbiamo chiesto protezione internazionale all’Italia e ce l’hanno negata. Nove su dieci di noi è stato rifiutato. Perché? Non abbiamo scelto di lasciare il nostro Paese, non siamo arrivati abbagliati dal benessere dell’Europa. Al contrario, siamo stati costretti a lasciare tutta la nostra fortuna per il niente: mogli e mariti, figli, madri e padri, il lavoro, la casa, le nostre certezze, i nostri desideri. Non siamo qua per chiedere ricchezza né pietà, ma solo giustizia. Vogliamo dirvi cosa succede oggi in Pakistan. Le notizie che arrivano in Italia sono poche e parziali, non dicono la verità; così abbiamo deciso di scrivere. Il problema di cui si sente parlare anche qui, un problema reale e quotidiano, è il terrorismo internazionale. Ma non pensate solo a Bin Laden che nelle nostre terre aveva trovato rifugio. Regioni a nord del Paese come il Waziristan e il Sawat, il Khyber Pakhtunkhwa, il Gilgit, il Baltistan sono luoghi di addestramento militare dei Talebani e allo stesso tempo oggetto di attacchi aerei continui da parte degli Stati Uniti. Al confine con l’Afghanistan la guerra continua. In Punjab, invece, solo qualche giorno giorni fa in una delle più belle e frequentate strade di Lahore, Food Street (Old Anarkali) c’è stata un’esplosione che ha ucciso cinque persone e ferito quarantacinque. Fatti ordinari sono bombe piazzate nei mercati, nelle strade e sugli autobus scolastici, nelle moschee, di fronte alle stazioni di polizia. Immaginate di uscire ogni giorno di casa e non sapere se ci si farà ritorno. Estremismo religioso, conflitti violenti tra sunniti e sciiti che a Quetta nel Balochistan e in alcune zone del Punjab assumono la forma di un nuovo genocidio, persecuzioni contro minoranze religiose come gli Ahmadyia, lapidazione di donne ‘peccatrici’ e omosessuali, impiccagioni pubbliche a suon di legge, faide tra famiglie e gruppi di potere locale per il controllo del territorio sono all’ordine del giorno. Nella regione di Sindh, nel sud-est del Pakistan, il terrorismo islamico si sposa a quotidiani omicidi che restano impuniti. Aggiungete la violenza perpetrata da partiti politici in lotta fra loro, i rapimenti e le sparizioni di persone che resistono all’estorsione e alle mafie locali. In tutto questo la polizia resta a guardare, o si muove solo quando annusa aria di soldi. La ragione è sempre del più potente. Idem per il sistema giudiziario. Forse vi sono arrivate le immagini della nostra ex prima ministra Benazir Bhutto, uccisa nel 2007: ancora la giustizia non ha fatto un passo riguardo ai mandanti. Ucciso è stato anche Salmaan Taseer nel 2009, governatore del Punjab, quando si è opposto alla legge islamica sulla blasfemia e alla pena di morte. Immaginate che sorte può toccare a noi comuni cittadini in uno Stato immobilizzato dalla corruzione capillare, dal terrorismo internazionale e dall’estremismo religioso. Il Pakistan è un Paese in pace? Non siamo poveri ciechi. Siamo tecnici informatici, commercianti, imprenditori, allevatori, agricoltori, maestri e studenti, figli e padri. Arrivati qui con viaggi di fortuna che sono costati tutto quello che ci era rimasto, chiediamo che il Governo Italiano ci ascolti veramente e che ci riconosca la protezione internazionale. Quando la Commissione per la protezione internazionale non ci crede, quando danno più adito alle storie del nostro governo corrotto che alle nostre parole, quando ci viene risposto di ritornare in Pakistan e rivolgerci alla polizia, quando pensano con arroganza che siamo tutti arrivati solo per ragioni economiche, ci mettono in un limbo infernale: non possiamo rimanere qui ma neanche ritornare nel nostro Paese. Vogliamo che chi decide del nostro futuro sia bene informato, che non giudici sommariamente e sulla base di interessi di politica internazionale. Vogliamo sapere da che fonti arrivano le informazioni sul Pakistan alla Commissione e chiediamo la protezione internazionale che ci spetta.
Gruppo Richiedenti Asilo Pakistani di Roma
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