di Pietro Orsatti
Il pm a Palermo Nino Di Matteo sempre più nel mirino di Cosa nostra e forse non solo di quella. Pubblica accusa al processo sulla trattativa è certamente uno dei magistrati antimafia più esposti. Alcuni mesi fa lettere di minaccia – valutate estremamente gravi – avevano condotto a un rafforzamento delle misure di protezione nei suoi confronti. Oggi il Giornale di Sicilia rende noto che queste misure si sarebbero ulteriormente rafforzate a causa delle rivelazione di un confidente delle forze dell’ordine che avrebbe segnalato non solo l’arrivo in Sicilia di esplosivo e telecomando per un attentato al magistrato, ma che ci sarebbero stati incontri fra uomini di spicco di Cosa nostra e “amici romani” finalizzati, questa l’ipotesi, proprio alla pianificazione dell’attentato.
Ovviamente – e la storia della lotta contro la mafia è piena di episodi simili – c’è chi minimizza. Gli argomenti sono i soliti: Cosa nostra sarebbe da decenni in ritirata, non avrebbe più la capacità militare degli anni che vanno dai primi anni ’70 al periodo stragista dei primi ’90, l’offensiva repressiva e culturale da parte dello Stato avrebbe ridotto l’area del consenso nei confronti delle organizzazioni mafiose. E che quindi il terreno di cultura per mettere in atto una strategia di scontro come quella che prevede un omicidio eccellente.
Se gli argomenti portati per sostenere la tesi di un eccesso di allarme possono avere un loro apparente fondamento, le conclusioni minimaliste si scontrano con la storia ultra centenaria e la natura stessa dell’organizzazione mafiosa chiamata Cosa nostra.
E proprio chi abbia un minimo di conoscenza di questa natura e storia e conosca la capacità di tenere in piedi l’organizzazione anche davanti a offensive e nel corso di ritirate. Rinnovandosi, nella segretezza, mantenendo un legame con la propria tradizione criminale.
Per questo ritengo che le minacce a Di Matteo e ai suoi colleghi sia di Palermo che Caltanissetta debbano essere prese tragicamente sul serio. La crisi economica, istituzionale, politica e sociale che sta attraversando il paese favorisce le mafie. E ancor più un’organizzazione così limitrofa e intrecciata con pezzi importanti e strategici della politica e dell’economia come ha dimostrato di essere Cosa nostra in più di cent’anni di storia. E ancora, è necessario ricordare che il ricorso agli omicidi eccellenti come fattori di pressione e dialogo con pezzi della politica e dell’economia – e proprio in momenti di grave crisi nazionali – è sempre stata prerogativa di Cosa Nostra fin dai tempi dell’assassinio Notarbartolo. E, ancora, che la strategia dell’inabissamento (il basso profilo militare) imposta da Provenzano dopo le stragi dei primi ’90 non è stata una novità, e che da quei periodi di apparente ritirata la mafia ha sempre riproposto la propria cultura di violenza anche ai massimi livelli. Si inabissò durante il fascismo a causa della repressione del prefetto Mori, riemerse più forte di prima con l’offensiva violenta contro movimenti e sindacati rurali immediatamente finita la guerra, si inabissò ancora dopo la strage di Ciaculli per poi ricomparire anni dopo con quella di Viale Lazio. In mezzo periodi di invisibilità totale altro che basso profilo. Come è profondamente sbagliato scaricare solo su i corleonesi e Totò Riina la cultura dello stragismo terroristico mafioso. Gli omicidi Costa, Chinnici, Dalla Chiesa, Terranova, La Torre e Mattarella che questa cultura violenta e stragista e eversiva è appartenuta, sempre, a tutta Cosa nostra.
Un’ultima riflessione va fatta su quel dettaglio di riunioni fra i boss e gli “amici romani”. Che sottintende alleanze e collaborazioni con altre entitá e altre organizzazioni mafiose che non sono mai state una novità – soprattutto per chi ha guardato all’intero percorso criminale della mafia siciliana – e che coincidono con quello che sta avvenendo nella Capitale negli ultimi anni. Una vera propria guerra di mafia (negata per troppo tempo da stampa e istituzioni) che vede tutte le organizzazioni presenti in Italia coinvolte e che suggerisce cartelli inediti e alleanze finora mai così evidenti. Perché gli “amici romani”? Perché è li che ci sono soldati, contatti e relazioni finora dormienti se non sul piano locale e che possono tornare utili.