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Israele e “Stato ebraico” nei media: non un sinonimo, ma un progetto politico

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Come ben noto a chi lavora nell’ambito dell’informazione, non è facile porsi in una posizione obiettiva quando si parla di conflitti, e ancor meno quando si affrontano temi “caldi” quali il perdurante conflitto israelo-palestinese, una ferita sempre aperta nel contesto medio-orientale che, da 65 anni, riesce ad influenzare non solo l’area suddetta, ma l’intera politica mondiale. Ma se la neutralità del giornalista è utopica, resta un presupposto fondamentale per fare della buona informazione l’utilizzo di un linguaggio corretto. Una parola, utilizzata con noncuranza come sinonimo, può racchiudere in sé un significato molto più vasto, propagandando un progetto politico e causando uno sbilanciamento nella percezione del pubblico. Un esempio su tutti è l’impiego del termine “Stato Ebraico” all’interno dei media, usato indifferentemente, troppo spesso, come sinonimo di Israele. Cosa ne comporta l’utilizzo, e perché è da ritenersi tanto pericoloso?

Come spiega il professor Sari Nusseibeh, pacifista e professore di filosofia all’Università Al-Quds di Gerusalemme in un suo articolo del 2011 intitolato “Why Israel can’t be a Jewish State”, pubblicato dal sito di Aljazeera, la richiesta di Israele di essere riconosciuto come “Stato ebraico” è “logicamente e moralmente problematica a causa delle sue implicazioni legali, religiose, storiche e sociali”.

Per citare solo alcuni dei problemi sollevati da Nusseibeh, l’esistenza di uno Stato-nazione moderno definito da un’unica etnia o da una sola religione contraddice i presupposti stessi sui quali si basa il concetto di Stato-nazione come istituzione temporale e civile, e l’applicazione di questo concetto renderebbe Israele non più una democrazia, ma una teocrazia (nel caso si applichi la parola “ebraico” alla religione del giudaismo), o uno Stato di apartheid (se il termine venisse utilizzato per indicare il popolo ebreo a livello etnico). Essendo inoltre un israeliano su cinque etnicamente arabo, spiega Sari Nusseibeh, definire Israele “Stato ebraico” implicherebbe a livello legale che chiunque non professasse la religione ebraica, ossia il 20% della popolazione di Israele (musulmani, cristiani, drusi o bahai) non avrebbe più diritti di cittadinanza, mentre ad ogni membro della comunità ebraica del mondo, a dispetto dell’attuale residenza e nazionalità, sarebbe riconosciuto tale diritto.

“Stato ebraico” non è quindi un termine neutrale, implica anzi una visione politica ben precisa: a riprova di ciò, questo è il titolo scelto per il testo programmatico del movimento sionista, scritto da Theodor Herzl, edito nel 1896 a Vienna (“Der Judenstaat”). Usarlo come sinonimo di Israele è etimologicamente scorretto, non solo perché il suo utilizzo rappresenta un’indiretta accettazione del progetto sionista, ma anche perché, essendo il riconoscimento di Israele come “Stato ebraico” una delle condizioni imposte dalla sola destra israeliana per il possibile avvio di un processo di pace con i palestinesi, non può essere ritenuto rappresentativo della volontà dell’intera popolazione israeliana ebraica.

I media dovrebbero fare più attenzione nell’utilizzare termini ambigui: la superficialità nella scelta di un termine può acuire il conflitto esistente, influenzando la visione che si ha del contesto dall’esterno e diventando una possibile concausa nel perdurare dell’attuale situazione di stallo nei negoziati di pace tra Israele e Palestina. Lo “Stato ebraico” resta per ora solo un progetto di alcuni, non un altro modo di chiamare quella terra troppo spesso bagnata dal sangue di innocenti.


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