di Mostafa El Ayoubi
Cosa ha spinto migliaia di turchi a scendere in piazza Taksim? Innanzitutto la paura che la laicità cada sotto i colpi degli islamisti, che vogliono re-islamizzare il paese introducendo norme come ad esempio quella contro il consumo dell’alcool. Poi ci sono anche molti musulmani praticanti che non condividono la svolta autoritaria di Erdogan, che si manifesta non solo nella violenza con cui sono state represse le proteste ma anche nel tentativo di accentrare il potere nelle proprie mani e in una politica estera aggressiva.
La recente ondata di proteste che ha travolto la Turchia a partire dallo scorso fine maggio ha riacceso i riflettori su un paese che nell’ultimo decennio è stato lodato dalle cancellerie occidentali per il tipo di governo stabilitosi e per il modello politico adottato. In Turchia oggi governa un partito di matrice religiosa, il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), giunto al potere nel 2002. L’Akp è considerato portatore di un islam «moderato» e quindi rassicurante per la Nato. Quanto al modello politico, l’esecutivo turco ha fatto suo quello vigente in gran parte dei paesi occidentali, soprattutto in campo economico, con massicce misure di tipo neoliberista.
Questa politica neoliberista ha in qualche modo – e finora – prodotto un «boom economico» nonostante le varie crisi internazionali: in 10 anni, il reddito pro capite turco è passato da 9 a 15mila dollari. Complessivamente la situazione economica del paese è sensibilmente migliorata, con qualche beneficio anche per i ceti sociali poveri.
Quali sono allora le cause del malumore che ha fatto scendere in piazza decine di migliaia di persone in diverse città del paese?
La prima mobilitazione è avvenuta a piazza Taksim, al centro di Istanbul, il 28 maggio. La protesta era contro la trasformazione del parco Gezi, adiacente alla piazza, in un centro commerciale con una nuova moschea e la ricostruzione di una caserma risalente ai tempi dell’impero ottomano. Migliaia di persone hanno occupato piazza Taksim per dire «no» a questo progetto. Ma con il passare dei giorni e il dilagare della mobilitazione in molte altre città turche, si era capito che la questione del parco Gezi è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Lungo il periodo di governo dell’Akp si sono sedimentati seri problemi legati alla democrazia e ai diritti individuali e collettivi.
La recente rivolta in Turchia trova le sue radici nel dualismo ideologico tra islamismo e laicità «alla Ataturk» che caratterizza la società turca post-ottomana. L’ascesa al potere degli islamisti, il cui progetto politico è quello di (re)islamizzare il paese, ha fatto crescere la preoccupazione in quella parte della società che rifiuta di essere assoggettata a leggi derivanti dalla sharia. Il tentativo di rendere illegale l’aborto e le norme varate contro il consumo dell’alcool, ad esempio, sono segnali indicativi in tal senso. La mobilitazione di piazza Taksim è stata quindi l’occasione per i «laici» di denunciare l’egemonia ideologica degli islamisti.
Tuttavia, questo dualismo ideologico non è la sola causa delle contestazioni. C’erano anche gruppi di manifestanti che hanno pregato in piazza. Alla mobilitazione hanno quindi partecipato anche musulmani praticanti che non condividono la politica dell’Akp. Questo partito ha portato all’estremo la polarizzazione tra democrazia e autoritarismo. È stata la progressiva deriva autoritaria la principale motivazione delle proteste che la polizia ha represso con tanta violenza.
Il bersaglio principale di quella parte della società civile scesa in campo era in realtà Tayyib Erdogan, il leader indiscusso dell’Akp e l’uomo politico più carismatico in Turchia oggi. È capo del governo dal 2003 e si candiderà, salvo colpi di scena, alle presidenziali del 2014. Forte di una maggioranza assoluta al Parlamento, Erdogan sta portando la Repubblica verso un regime (semi) presidenziale. E se vincerà le elezioni – il che è molto probabile perché vi è una solida base popolare che lo sostiene, come si è visto nelle contro-manifestazioni a suo sostegno – avrà maggiori poteri e governerà ancora a lungo.
Di fatto in Turchia è in vigore oggi un regime autocratico. Erdogan, dopo aver messo sotto controllo il sistema giudiziario e addomesticato l’esercito mettendo i suoi fedeli ai posti di comando, dispone di pieni poteri. Erdogan ha definito la gente che è scesa in piazza «vandali» e in vari momenti ha usato la violenza ed è ricorso ad arresti di manifestanti per stroncare la contestazione. L’ultimo rapporto di Reporters sans frontières sulla libertà d’informazione in 179 paesi, colloca la Turchia alla 154esima posizione. Decine di giornalisti e centinaia di studenti giacciono in carcere per reati d’opinione.
Quella parte di turchi che contesta oggi Erdogan teme che quest’ultimo, nella sua ambizione di instaurare una potenza «neo-ottomana», trascini il paese nel caos. Sul piano economico, la sua politica neoliberista è strettamente legata al sistema finanziario internazionale. Si teme quindi che la crescita economica realizzata sia «dopata» e che le speculazioni finanziarie possano causare una crisi economica simile a quella della Grecia. Ma preoccupa ancor di più la sua strategia geopolitica. Approfittando della grave crisi che sta attraversando il mondo arabo in seguito alla cosiddetta «primavera araba», Erdogan ha pensato di estendere l’influenza geopolitica della Turchia sul Medio Oriente/Maghreb. Ad incoraggiarlo è la parentela ideologica, di matrice sunnita, tra il suo partito e gli islamisti che «governano» oggi l’Egitto e la Tunisia. Ma questo progetto si trova di fronte a diversi ostacoli: l’Iraq, l’Iran e la Siria, paesi ad influenza sciita; motivo per cui Erdogan è oggi un attore attivo nella guerra contro la Siria e nel conflitto tra lo Stato centrale e la regione del Kurdistan in Iraq. Con lo scoppio delle rivolte nei paesi arabi, la Turchia ha rinunciato alla sua politica «zero problemi» con i vicini per partecipare al progetto di rimodellamento della regione sotto la direzione degli Usa. Oggi il governo turco si è fatto nemici la Siria, l’Iraq e l’Iran. La sua stretta alleanza con Washington e con i regimi dittatoriali arabi del Golfo Persico, che con la loro dottrina wahabita istigano allo scontro interconfessionale, ha danneggiato l’immagine della Turchia presso le popolazioni musulmane.
Tutto ciò preoccupa oggi quella gente che ha occupato per diverse settimane piazza Taksim. Ha paura che Erdogan, l’aspirante «sultano neo-ottomano», trascini la Turchia verso il baratro a causa della sua politica regionale che potrebbe spaccare un paese storicamente multietnico e multireligioso. Taksim significa «dividere» ed è proprio quello che i turchi scesi in piazza vogliono risparmiare al loro paese.
Tahrir vuol dire «liberare» e anche gli egiziani sono tornati nella loro piazza preferita per dire no all’autoritarismo degli islamisti al potere. E ci sono riusciti, ma con l’aiuto dell’esercito. Era meglio senza, perché ora dovranno affrontare il totalitarismo dei militari.