Per inchieste o servizi sulla professione giornalistica, in molti casi l’anonimato è d’obbligo. Esporsi è rischioso. La sindacalizzazione piace poco. E la logica della flessibilità non ammette tutele, né garanzie. Dice Maurizio Bekar, responsabile della Commissione lavoro autonomo della Fnsi, il sindacato dei giornalisti: «Tra gli autonomi, gli iscritti al sindacato sono 18 mila, ma all’interno di giornali, televisioni e radio i free lance iscritti sono ancora assai pochi». Secondo il Rapporto “La fabbrica dei giornalisti” stilato da Lsdi, «sfugge invece ancora la natura di quei 48.206 giornalisti iscritti all’Ordine che, all’1 ottobre 2012, non avevano nessuna posizione Inpgi». Secondo l’Associazione Libertà di stampa diritto all’informazione questo dato rappresenta il 46,8% di tutta la popolazione giornalistica italiana. Per Bekar questi due dati, il basso tasso di sindacalizzazione dei free lance rispetto al numero dei cosiddetti “giornalisti invisibili”, iscritti all’Ordine ma non contribuenti dell’Inpgi, l’Istituto di previdenza della categoria, «hanno un valore tecnico e insieme culturale». Perché sono un segno profondo della realtà presente: «Una volta facevi anche cinque anni di fila di precariato, abusivismo e poi però venivi assunto, chiunque veniva assunto, anche le capre… I motivi di esclusione potevano esser solo due: o non eri proprio all’altezza oppure avevi scelto altre strade». Oggi non è così, il precariato può essere a vita. Chi non è entrato non entra più, chi è dentro teme d’essere espulso a breve. Come dire: anche un contrattualizzato di Corriere o Repubblica oggi vede il suo futuro a rischio. Perciò nei 48 mila e rotti iscritti all’Ordine e non Inpgi, c’è di tutto: un’area filo sindacale, una anti tipo Cobas, un’altra equidistante dalle due. Dice Valerio Tripi, 34 anni, collaboratore a impegno fisso, «ma solo per quanto riguarda l’impegno» tiene a precisare, presso la redazione palermitana di la Repubblica e che da un po’ di tempo è rientrato in famiglia con i genitori per l’impossibilità di mantenersi: «Guadagno da un minimo di 250 a un massimo di 450 euro». Alla domanda “per quanti pezzi?” risponde così: «Noi collaboratori non conosciamo nel dettaglio il tipo di pezzi». Cioè l’amministrazione comunica solo l’importo, non il titolo degli articoli. «So solo che per una rubrica quotidiana fissa sei-giorni-su-sei di 800 battute ricevo in cambio 20 euro a settimana». Una “spalletta” di dodici-quindici righe può valere 5 euro, ma il tariffario varia, non è fisso e uguale per tutti. Così le righe possono essere anche 35 come 45, ma il compenso sempre uguale. In Toscana un pezzo di questa grandezza può valere tra i 10 e i 15 euro, nel Lazio tra i 20 e i 25 come pure 5 euro. «Non c’è regola» annota Bekar. E le brevi, «è consuetudine», non vengono pagate. E c’è chi, al Gruppo Caltagirone per esempio, Messaggero di Roma e Mattino di Napoli, chiede anche un breve abstract dell’articolo per destinarlo all’online, «tutto compreso nel prezzo». Cioè senza compenso extra. Nel panorama, non mancano poi i free lance «di fascia bassa da 5 mila euro l’anno, che lavorano come dannati e a cui viene chiesta anche la foto a corredo dell’articolo». Le “brevi” «entrano per lo più nel novero generale del rapporto di lavoro, cedute gratuitamente e poi, a compensazione, il capocronista ti fa fare un articolo una tantum un po’ più lungo che ti viene pagato la bella cifra di 10 euro». L’informativa, cioè la notizia o il canovaccio di una notizia che viene data da un collaboratore a un redattore interno, «è rigorosamente gratis e la firma il titolare e non il collaboratore che la dà». Le tabelline sportive, le classifiche del campionato, i risultati delle partite valgono 3 euro l’una. Autonomo, precario o free lance? Il mondo delle collaborazioni è una giungla: «Io mi ritengo fortunata – dice Valeria Calicchio, che per il Lazio è un punto di riferimento del gruppo Errori di stampa – perché faccio l’addetta stampa del neocapogruppo del Pd nel Consiglio comunale di Roma». Collabora anche a L’Espresso, ha avuto rapporti con un free press «per 10 euro a pezzo» e per una società che faceva recensioni enogastronomiche «a 12,50 all’ora, per cinque-sei recensioni. Prima però ero disoccupata». Valeria sostiene che «la figura del free lance maschera in ogni caso una precarizzazione sistemica. Anche se si viene pagati a pezzo, la testata ti considera come un dipendente: a disposizione tutto il giorno, a qualsiasi ora e in qualsiasi momento, un tacito accordo capestro anche se si è a borderò. Un collaboratore a partita Iva dell’Ansa, in teoria è un libero professionista che può lavorare nel frattempo con chi altro vuole, ma solo in teoria: nella pratica finisce per lavorare solo per l’Ansa, tanto è l’impegno». Ma il precariato è davvero attività solo per giovani e giovanissimi? «Questo è un mito da sfatare. Tutti questi giovani precari non ci sono, non si vedono» afferma Moira Di Mario, storica collaboratrice precaria de Il Messaggero alla cronaca di Roma. «I ragazzi tra i 20 e i 27 anni non collaborano ai giornali, in genere i collaboratori storici sono tra i 30 e oltre i 50. E hanno collaborato con lo stesso giornale anche per oltre vent’anni nella continua e mai ripiegata speranza di entrare prima o poi, facendo di tutto, comprese le sostituzioni periodiche di colleghe in maternità o colleghi in ferie». Lei compie 49 anni tra un mese, ha iniziato nel 1992: ventuno anni fa col la speranza di entrare nel quotidiano della capitale. Niente da fare. «Prima aspiri alla collaborazione, poi speri nella sostituzione, ma adesso tutto è saltato. La filiera o catena del tradizionale ingresso nel mercato del lavoro giornalistico non esiste più. È cambiato il mercato e sono cambiate anche le regole d’ingaggio. Quando ho cominciato si poteva ancora sperare in un futuro, ma gli anziani in genere o non venivano sostituiti per nulla oppure venivano sostituiti con raccomandati o persone di fiducia della direzione del giornale. Qui c’è anche una corriva corresponsabilità del sindacato e dell’Ordine professionale. Gli editori, si sa, guardano al proprio tornaconto e hanno capito che affidarsi al lavoro esterno in fondo paga. Perché sanno di poter contare su degli “schiavi” che sono per lo più presi dal sacro fuoco di vedere la propria firma su un pezzo di carta. E l’Ordine dei giornalisti non è riuscito a fermare il fenomeno di quei colleghi che facendo altri lavori forniscono anche prestazioni giornalistiche gratuite. Gli editori sanno che possono sempre contare su un esercito di riserva di professionisti disposti a tutto e se ne approfittano». Negli anni Novanta, a insidiare il lavoro delle redazioni c’erano i Service editoriali. Strutture esterne di professionisti che confezionavano inserti spettacoli, tamburini, notiziari, pagine di servizio tipo week end e di programmi tv, film o risultati di calcio, darti “chiavi in mano” ai giornali, che così si liberavano di un carico di lavoro rognoso. «Oggi il fenomeno è rientrato, ma non per i quotidiani sportivi» afferma Moira di Mario, che aggiunge: «Si tratta di anomalie e storture tutte italiane. Gli editori hanno attinto a piene mani ovunque, e spesso anche a scapito della qualità: ci sono pezzi che in taluni casi sono scritti davvero con i piedi. Gli editori in genere cercano collaboratori che facciano o abbiano un’altra attività, così si mettono al riparo da possibili cause di lavoro. Vogliono sicurezza». La filiera produttiva è piena di “ragazzetti” che si fanno le ossa nella speranza (vana) di essere assunti in futuro; intanto negli ultimi dieci anni, in periferia, un quotidiano come quello della capitale ha chiuso le redazioni di Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo, ma le pagine vengono comunque fatte e titolate da Roma, i collaboratori esterni – che per la Cronaca sono 180 – lavorano prevalentemente da casa. A tale proposito, si racconta che pure nelle sezioni Esteri le cose non funzionano granché: gli inviati non partono quasi più, così tra costi dei viaggi e tagli generali alle spese i verireporter sono i free lance, specie dalle zone di guerra. Privi spesso di assicurazione, non spesati, sono anche quelli che più rischiano. Tutti gli altri, «vanno all’estero solo se ci sono viaggi organizzati e prepagati». In genere un collaboratore di Esteri scrive anche per più testate, in modo da rientrare delle spese. Il guadagno “a pezzo” è decisamente minore, i tagli dei compensi sono arrivati anche al 50% negli ultimi tre anni, ma almeno c’è continuità della firma, anche se i pagamenti arrivano dopo oltre i 60 giorni canonici, 90 se va bene, 120 se va peggio. «Il primo taglio arrivò con lettera nel novembre 2010, al tempo del primo stato di crisi, ed ebbe effetto retroattivo: -10%» ricorda oggi Moira Di Mario, che aggiunge: «Continuiamo ad accettare condizioni da schiavi anche perché ti viene detto: “Se vuoi lavorare è così, altrimenti quella è la porta”». La deregulation è ormai totale. Dario Fidora, giornalista free siciliano, punta l’indice contro i professionisti come il notaio, il farmacista o il sindaco che poi fanno anche il giornalista. «E vengono nominati corrispondenti o collaboratori del foglio locale e insieme fanno pure l’ufficio stampa magari del Comune di Racalmuto…». C’è anche chi racconta che il collaboratore, specie delle cronache locali, s’è anche inventato la piccola testata di paese sulla quale far confluire tutte le notizie in eccesso che non riesce a pubblicare altrove, ed è al tempo stesso direttore ed editore di se stesso e voce o contraltare delle amministrazioni interessate. In un’indagine conoscitiva sul lavoro autonomo realizzata dalla Federazione della Stampa tra il 2010 e il 2011, si può già leggere che «sono emersi dati significativi e altamente preoccupanti (…) di una realtà perfino peggiore di quanto evidenziato fino ad allora da altri studi». L’assunto è che forse il lavoro non manca neppure, quel che non arrivano sono i compensi «quasi mai congrui e sintomo di uno sfruttamento sfrenato e senza limiti». Su un campione di 873 posizioni analizzate, 243 sono le partite Iva, cioè il 30% del totale e alla voce “compensi” «particolarmente impressionanti» risultano essere le risposte di quanti le classificano come «lavoro gratuito» o «volontario». Grazie alle nuove tecnologie, l’ultima frontiera della professione è oggi «la moderazione dei tweet»: sette ore e mezza di lavoro per 800 euro tutti i giorni. «È come se tu fossi di proprietà del giornale» annota Valeria Calicchio. Ma dopo un po’ la collega che se ne occupava per un grande giornale del Nord ha deciso di dimettersi e dall’incarico per non correre il rischio di ammalarsi. Complessivamente, nella professione, l’area del lavoro che cresce di più è quella del lavoro autonomo e parasubordinato: i cosiddetti co.co.co. «mentre quella del lavoro dipendente continua a restringersi». Lo studio della Fnsi certifica che al 30 novembre 2012 «solo il 19,1% degli iscritti all’Ordine – meno di un giornalista su 5 – ha un contratto di lavoro dipendente». Ma in quest’ultimo settore, il 2011 «ha visto un aumento esponenziale del ricorso agli ammortizzatori sociali, tanto che la spesa dell’Inpgi è cresciuta del 18% rispetto al 2010 per la solidarietà (+29%) e per la cassaintegrazione straordinaria (+144,7%). Il risultato di questo passo è che diminuiscono i contrattualizzati, invecchia progressivamente la professione, aumentano i pensionati e si svuotano via via i bilanci dell’Istituto di previdenza. Il giornalismo? Sta di fatto cambiando, sulla pelle di chi lo fa. Però Paolo T. non è d’accordo. «Il giornalismo così com’è oggi non è solo in crisi, è bello che morto. Tolta la Rai, i grandi giornali, non resta che il silenzio. Siamo arrivati al fordismo intellettuale. Anziché dieci cofani, dieci paraurti, mi fai diecimila battute? Anzi, direi di più: siamo oltre il fordismo: se vendo la macchina ti pago, se vendo l’articolo avrai i soldi, altrimenti niente». Già. C’era (una volta) la stampa, bellezza!
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