Netanyahu e Abbas soli di fronte al negoziato: il governo israeliano storce la bocca, Hamas e sinistra palestinese attaccano Fatah. Intanto Tel Aviv rilascia 82 prigionieri.
di Emma Mancini – nena-news.globalist.it
L’annuncio della ripresa del negoziato di pace tra Israele e Palestina muove i primi passi. Passi che sono solo politici: sia il premier israeliano Netanyahu che il presidente palestinese Abbas puntano al referendum per approvare l’eventuale accordo di pace su cui il segretario di Stato USA Kerry si gioca la credibilità.
Ieri Mahmoud Abbas, in un’intervista con un quotidiano giordano, Al Rai, ha annunciato l’intenzione di sottoporre a referendum popolare quanto uscirà dal tavolo dei negoziati di Washington, a cui siederanno la Livni e Molcho per Tel Aviv e Saeb Erekat per Ramallah. La stessa opzione che si riserva il primo ministro israeliano.
E se di confini non si parla (se non in una lettera con cui il segretario di Stato Kerry intenderebbe tranquillizzare l’ANP), lasciando la leadership palestinese senza la precondizione delle linee del 1967 su cui ha da sempre insistito, si parla di prigionieri: ieri Tel Aviv ha deciso di rilasciare 82 detenuti palestinesi , in maniera graduale, quattro fasi nell’arco di nove mesi. I primi 20 potrebbero essere liberati nelle prossime settimane, alcuni di loro sono dietro le sbarre da ben prima gli Accordi di Oslo del 1993. “Il rilascio dei prigionieri comincerà quando inizieranno i negoziati – ha detto un funzionario israeliano, in forma anonima – Pensiamo di liberarli in fasi diverse”.
A dare il via libera dovrà essere il governo a cui il premier Netanyahu sottoporrà la decisione nei prossimi giorni. L’esecutivo si riunirà anche per dare il suo formale assenso alla ripresa di negoziati fermi dal 2010. Un assenso che non necessariamente sarà raggiunto, visti i partiti che fanno parte della coalizione di maggioranza: in primis Casa Ebraica, nota per sostenere il movimento dei coloni e di certo poco propensa ad accettare il congelamento dell’espansione coloniale voluto da Ramallah.
Non sarà facile per Netanyahu scardinare le resistenze delle anime più nazionaliste del governo ma, come ha riportato un funzionario, il premier “presenterà i negoziati sponsorizzati da Kerry come un processo strategico che rafforzerà le relazioni con gli Stati Uniti” e quindi il loro sostegno contro l’Iran e il regime siriano di Assad. Resta da vedere quanto appeal la proposta di Bibi avrà sul governo: venerdì dopo l’annuncio di Kerry del rilancio dei negoziati, sia Casa Ebraica che il Likud non avevano nascosto la loro contrarietà, accusando Abbas di non avere alcuna presa sul popolo palestinese. Il ministro dei Trasporti Katz (Likud) aveva puntato il dito contro la divisione di Gaza e Cisgiordania, ricordando che la Striscia è governata da un movimento – Hamas – che non accetterà mai di riconoscere Israele come Stato ebraico.
Sembra che ben poco sia cambiato, difficile pensare che su simili basi un negoziato reale – come non ce ne sono mai stati – si possa effettivamente realizzare. Non si parla di confini e entrambe le parti sono scosse da antagonismi duri a morire: Netanyahu non pare avere l’appoggio incondizionato del suo governo, mentre l’ANP è stata duramente criticata sia da Hamas che dalla sinistra per la decisione di tornare al dialogo.
Per questo Fatah tenta di coprirsi le spalle: ieri un funzionario del partito di Abbas, Nabil Shaath, ha posto le condizioni per far partire concretamente il processo di pace: “Dipende da due condizioni. Se loro accetteranno, andremo alla seconda fase, ovvero i negoziati preliminari a Washington: rilascio dei prigionieri politici e congelamento dell’espansione coloniale”.