Ci sono sempre ottimi motivi per ricordare all’opinione pubblica che la Rai e quindi l’informazione radiotelevisiva pubblica è sempre nelle mani dei partiti e del governo. Presi da tante emergenze e urgenze, strattonati dalle vicende di partiti, formazioni politiche, blog e gruppi parlamentari, sorpresi da un governo che ha unito Pd e Pdl, la questione del controllo dell’informazione e del suo principale strumento – le televisioni – è passata in secondo piano. Male, molto male perché l’informazione è un bene pubblico o, meglio, comune che, appartenendo a tutti, non può e non deve essere controllato da nessuno in misura prevalente. E poi non di sola informazione si tratta, ma di vera e propria formazione culturale dell’opinione pubblica che passa anche dagli spettacoli di intrattenimento, dalla scelta dei film, dalla dose di pubblicità. Pensiamo alla responsabilità che si sono presa i media nella diffusione di modelli di comportamento e di relazione uomo-donna centrati sull’esasperato individualismo e sul culto del valore dell’attrazione fisica. Oppure alla presenza della violenza che è una costante dai primi cartoni animati ai film in prima serata.
Vuol dire che ci vuole una censura dei programmi? No, la risposta si chiama pluralismo e libertà. Per anni abbiamo subito la privatizzazione delle televisioni come se fosse il trionfo della libertà di espressione. Qualcuno ha anche pensato che la privatizzazione di una parte della Rai sarebbe stata utile al pluralismo (e alla riduzione dei costi). Dopo tanti anni di esperienza dobbiamo convincerci che un pluralismo che passa per forza dai capitali privati investiti in un’azienda televisiva non dà molte garanzie di libertà. O, meglio, le dà a chi ci mette i soldi, ai cittadini no.
Prendiamo ad esempio le trasmissioni di “approfondimento” di Canale 5 sul caso Silvio-Ruby messe lì apposta per preparare l’opinione pubblica alla sentenza nel processo che sta per concludersi a Milano. Si potrebbe dire che è puro giornalismo, no? E invece no, è Berlusconi che usa le sue armi. Come al solito. Quindi nulla di nuovo sotto il sole: la Rai controllata dai partiti e dal governo; l’impero televisivo e multimediale Mediaset nelle mani del capo del centro destra.
Dunque bisogna proprio rimettere in piedi alcuni concetti fondamentali, per esempio il servizio pubblico radiotelevisivo come infrastruttura a disposizione della società intera per far circolare informazioni, idee, creatività, intrattenimento ecc ecc.. Se nel passato i partiti potevano, forse, essere una garanzia di rappresentanza oggi non è più così e bisogna trovare forme nuove per farlo.
Il Consiglio per le comunicazioni audiovisive previsto nella proposta di riforma di MoveOn può essere questa novità che si mette al centro di un assetto delle televisioni e del servizio pubblico ridisegnato, più libero e più efficiente.
In questa proposta il Consiglio è composto da membri eletti da rappresentanze della società civile, dagli utenti e dalle maggiori espressioni istituzionali (Parlamento, enti locali, regioni) mettendo così in movimento una platea di soggetti molto più ampia di quella dei partiti. Il Consiglio nomina il Consiglio di Amministrazione della Rai e assume le competenze di indirizzo e vigilanza che attualmente spettano alla Commissione parlamentare Rai.
Il cambiamento rispetto alla situazione attuale è notevole e non può considerarsi completo senza una nuova disciplina dei limiti alle concentrazioni oggi stabiliti dalla legge Gasparri e senza norme efficaci sul conflitto di interessi. Di tutto questo si discuterà giovedi 20 giugno a partire dalle ore 17 nella Sala Mercede della Camera dei Deputati con giornalisti, parlamentari, rappresentanti della società civile ed esperti. Da lì dovrà partire un tavolo di lavoro per arrivare alla stesura di un progetto di legge di riforma. L’incontro è aperto a tutti.
* MoveOn Italia