VERSO IL CONVEGNO DEL 2 LUGLIO AL CNEL (Art.21/Fondazione Di Vittorio) – Che curioso il dibattito in Italia sulla Rai. Con la terribile vicenda greca sullo sfondo, dove culture economiche brutali hanno preso di mira il locale servizio pubblico, è ripresa l’«allegra» danza macabra, che fa pensare – mutatis mutandis- al finale di «Settimo sigillo». Sembra la premessa per la morte, più che una gioiosa apertura al mercato. E sì, perché porre in questo contesto, come ha fatto il governo, il tema della messa all’asta della concessione pubblica significa liberare gli «spiriti animali» del capitalismo mediatico, pronto a mangiarsi il gate keeper ancora non privatizzato. I servizi pubblici sono diventati ingombranti, visto che nella battaglia campale con i nuovi giganti della rete (da Google in poi) i vecchi editori privati vogliono prendersi tutto quello che c’è nel comparto radiotelevisivo, pensando di difendersi. Frequenze, programmi, diritti e così via.
Cerchiamo di capire quali sono i termini reali della questione. Va rinnovato il contratto di servizio triennale, già scaduto, mentre si approssima il tempo – ecco il nodo – della convenzione generale che regola i rapporti tra lo stato e la Rai, il cui termine è il 2016. E da un po’ di tempo è in atto una martellante campagna sui conti di viale Mazzini, indubbiamente messi male, ma non certo da oggi. E, in ogni caso, con responsabilità molto forti di chi ha gestito negli anni scorsi l’azienda, per esempio interrompendo il contratto con Sky, ovvero non valorizzando il vero e proprio tesoro su cui siede l’azienda, vale a dire la società delle frequenze «Rai Way». Un fin troppo tempestivo rapporto di Mediobanca fissa in 2,5 miliardi il valore del settore pubblico, anche sulla base della crisi nerissima della raccolta pubblicitaria. Certo, qui sta il cuore del problema. La mancanza di una seria normativa antitrust e di una decente legge sul conflitto di interessi hanno portato all’anomalia italiana: Mediaset perde assai meno spot con ascolti spesso in picchiata. Perché mai? Per quello che i giuristi chiamano il «sostegno privilegiato», di cui si avvale il gruppo.
Ma torniamo all’altra faccia del monopolio (l’era del duopolio da un po’ è sepolta). Il servizio pubblico è in crisi: di conto, di idee, di valori. L’attuale vertice è figlio della stagione dei tecnici e pare sopravvivere a se stesso, con il corredo di piani e «cantieri», scivoli e annunciate chiamate dirette, forse persino minaccia di chiusura delle sedi regionali. Quando si dice l’importanza del territorio. Taglio, ergo sum si potrebbe dire di un gruppo dirigente le cui modalità di nomina vanno completamente ripensate. Si è tenuto un interessante dibattito al riguardo convocato dal Move On e ci sta lavorando il coordinamento dei parlamentari che fanno riferimento all’associazione Articolo 21. Quest’ultima terrà sull’intera materia un convegno a Roma presso il Cnel – insieme alla Fondazione Di Vittorio – il prossimo 2 luglio.
Un criterio, però, va subito definito. la Rai non si può vendere a pezzi, viste l’unitarietà sancita del servizio pubblico e l’identità che ne tesse la trama; neppure è immaginabile una privatizzazione dell’insieme della struttura, a meno di non mettere in discussione, tra l’altro, lo stesso «Protocollo sul sistema di radiodiffusione pubblica negli stati membri», annesso al Trattato di Amsterdam (2 ottobre 1997).
Il rinnovo della Convenzione, da preparare con un utile coinvolgimento dei cittadini-utenti, non è la scusa per la resa al mercato, bensì la straordinaria opportunità di avviare il vero cantiere, quello del servizio pubblico aperto alla società, fondamentale bene comune. Non è la difesa delle incrostazioni antiche, bensì l’ingresso con un «navigatore» nell’era digitale.