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Rai: il punto di partenza è il conflitto di interessi

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VERSO IL CONVEGNO DEL 2 LUGLIO AL CNEL (Art.21/Fondazione Di Vittorio) – Sky ha citato in giudizio l’autorità per le Comunicazioni (Agcom) perché avrebbe favorito per anni Mediaset nella raccolta pubblicitaria. La tv di Murdoch si è rivolta al tribunale amministrativo del Lazio chiedendo un risarcimento per circa 100 milioni di euro. A prescindere da come andrà a finire è l’ennesima dimostrazione che il sistema radiotelevisivo è allo sfascio. A ciò ha contribuito in modo determinante la legge Gasparri. Sin dal ritorno a Palazzo Chigi di Berlusconi nel 2001, ancor prima che la legge venisse approvata (una delle tante ad personam voluta dal centrodestra per favorire gli interessi del Cavaliere), la discussione era improntata sul futuro della concessione di servizio pubblico e sui criteri per determinarlo: se il tg, compreso l’approfondimenti informativo, è la sua essenza, al momento del rinnovo della concessione si potrebbe prendere in considerazione non solo la Rai ma anche altre tv a parità di requisiti, suggerivano, allora, i vari commentatori dei giornali riconducibili a Berlusconi. Negli anni successivi l’omologazione della Rai alla tv commerciale ha messo in crisi l’identità della tv pubblica.

L’obiettivo del centrodestra in tema di sistema radiotv non è mai stato il bene comune ma la spartizione della tassa di possesso del televisore (canone Rai) e delle tante convenzioni ministeriali. Il recente agitarsi del viceministro Catricalà (titolare della delega alle Comunicazioni), fedelissimo di Berlusconi (lo considera il nuovo Gianni Letta), con precedenti imbarazzanti: ai tempi della legge “salva Rete4”era il capo di gabinetto del ministro Maccanico, da presidente dell’Antritrust tenne nel cassetto il dossier sulla posizione dominante di Mediaset del suo predecessore Tessauro, ha come obiettivo l’asta per assegnare la concessione. Questo deve essere impedito. Che il viceministro sia perfettamente in linea con i suoi predecessori (Scajola, Romani, Passera) lo dimostra il fatto che al dipartimento delle Comunicazioni nulla è cambiato, tutti sono rimasti al loro posto, nonostante i danni creati sulle frequenze, dal beauty contest alla mancata asta.

La riorganizzazione delle frequenze è il punto di partenza se si vuole avere un futuro di libera concorrenza. Oggi il mercato è in mano a pochi faccendieri (Berlusconi, De Benedetti, Cairo, Tarak Ben Ammar), che grazie alla politica, utilizzando l’amico dell’amico (compreso chi sta al ministero), suggeriscono le decisioni da prendere. Per questo non ci stancheremo mai, noi di Articolo 21, di dire che l’emergenza è il conflitto d’interessi. Senza una legge adeguata, in particolare per il settore audiovisivo, non si andrà da nessuna parte. Siamo obbligati (cosa aspetta il governo Letta?) a dare risposta all’Unione Europea che impone la divisione societaria tra i contenuti e la rete che distribuisce il segnale (frequenze). Rai e Mediaset non sono in regola: Rai Way e Ei Tawers si differenziano da Rai e Mediaset solo contabilmente, i titolari dell’uso delle frequenze sono ancora le società radiotelevisive. Sarebbe riduttivo e inutile concentrare il confronto del 2 luglio sulla necessità di rinnovare la concessione alla tv pubblica con tesi socio-politiche sulla storia della Rai, su quanto la Rai è stata importante per l’unificazione del paese, bisogna partire dall’editto bulgaro (18 aprile 2002) da ciò che è accaduto in azienda successivamente con l’arrivo delle truppe cammellate di Berlusconi, del danno editoriale, economico, e non secondario, d’immagine.

Ci siamo dimenticati della mancata cessione del 49% di Rai Way con l’entrata di Rai nella telefonia mondiale, con il senno di poi sarebbe stato un’operazione economica straordinaria; della nomina del dg Meocci e relativa condanna dei 5 consiglieri di amministrazione del centrodestra; dell’interruzione del rapporto con Sky voluto dal dg Masi con relativa chiusura di RaiSat, della degenerazione dell’informazione che ha avuto il punto più alto nella direzione Minzolini al Tg1,la lista sarebbe infinita. Ritengo che sia necessario analizzare non solo il piano industriale presentato dal dg Gubitosi, ma soprattutto quello editoriale. I canali digitali così come sono impostati non funzionano (6 sono sotto lo 0,5% di share), di conseguenza la raccolta pubblicitaria, contrariamente dalle promesse fatte dal dg Masi, stenta. L’altro obiettivo è far uscire i partiti dalla Rai cambiando la nomina del cda. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la decisione del consigliere Verro che, dopo essere stato confermato nel cda, si è candidato al Senato, e dopo essere stato eletto si è dimesso da senatore (su ordine di Berlusconi), perché più utile in Rai. Brevi considerazioni sul futuro: il coinvolgimento dei cittadini (come fece la BBC) e dei lavoratori della Rai prima ancora di discutere della sua identità.


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