Tutto è iniziato per proteggere un parco, il Gezi Parki nella centrale e rinomata piazza di Taksin: al posto degli alberi e del poco verde cittadino rimasto, in progetto la costruzione di un grande centro commerciale. “No, non ci stiamo”, hanno pensato alcuni giovani. Cosi’ hanno occupato il parco. Ed è scoppiata la guerra. E’ certo una rivoluzione e come tutte le ribellioni merita rispetto e solidarietà, soprattutto perché la repressione da parte della polizia è stata senza pietà: 4 morti, 2 persone che hanno perso la vista, un numero imprecisato di feriti e ancora il bilancio non è stimato del tutto.
Dietro la primavera turca pero’ c’è molto di più che 600 alberi a rischio nel cuore pulsante della città di Istanbul.
I nomi e i fatti sono i soliti: ditte di costruzioni e imprenditori che fanno capo al Premier Erdogan e imparentati con ditte statunitensi (gli stessi, fornitori dei lacrimogeni impiegati per reprimere la protesta al Gezi Parki). Corruzione, abuso di potere, scempio urbano, propaganda e repressione.
No, la Turchia non è una democrazia da prendere ad esempio per farne il modello Medio Orientale come qualcuno ha voluto credere (come tutti i maggiori capi di Stato ci hanno detto di credere). Chi non lo sapeva, ha voluto ignorare, come per tante altre questioni di geopolitica.
Partiamo ad esempio dallo scempio dei diritti per poi arrivare a quello del paesaggio urbano.
La Turchia è la nazione che nel 2011 ha vinto il ‘Nobel’ per il record di giornalisti in prigione. Peggio della Cina, peggio dell’Iran. Ricordiamo, per onore di cronaca, le centinaia di rappresentanti e attivisti curdi, ma anche turchi e aleviti (e chi più ne ha più ne metta) in carcere per il semplice fatto di esprimere le proprie idee sulla politica e la società turca.
Nel corso di questi ultimi anni, il partito del Premier turco Erdogan li ha temuti: il partito filo-curdo è diventato terzo al Parlamento e ha vinto le elezioni comunali nelle città più importanti dell’est della Turchia.
Tanti sindaci arrestati e deputati accusati di tramare contro l’unità dello Stato turco, sono finiti in prigione grazie ad una legge dell’epoca kemalista (una legge a tutela dell’integrità nazionale risalente all’epoca di Ataturk, il grande padre della nazione, che peraltro era di origini greche).
Veniamo al paesaggio: Istanbul, come molte altre città turche, è stata radicalmente trasformata negli ultimi 20-30 anni. Da città ponte fra oriente e occidente, unica nel suo genere, è stata trasformata in terra dei non-luoghi: shopping center, centri commerciali, grandi alberghi e grattacieli in nuovi quartieri residenziali creati per i grandi ricchi, a discapito del verde.
Un abrutimento paesaggistico e architettonico che ha annientato, quasi del tutto, la sua storia ricca, pluriculturale e plurireligiosa, evocatoria di scorci e paesaggi esotici, fatta di piccole strade e passaggi in cui si incuneavano tante tipiche costruzioni in legno, le konak, ormai sempre più rare.
Un lento degrado cominciato un secolo fa. Perché restaurare se si puo’ distruggere? Perché rispettare tutte le differenze se si puo’ uniformare, livellare, radere al suolo?
E’ questa, certo non esaustiva, la panoramica della Turchia attuale e una minaccia ancor più grande potrebbe avvenire con un presa di potere da parte dei militari. Erdogan, accusato di restaurare il potere religioso, conservatore e oltranzista in Turchia, è anche il Premier che ha fortemente voluto l’adesione della Turchia in Europa, che ha fatto delle riforme (almeno su carta) per allargare i diritti delle minoranze ma soprattutto è colui che ha accettato le trattative per uno dei più grandi compromessi della storia: la pace con i ribelli curdi del PKK di Ocalan. Questo anche per evitare la minaccia di un’espansione del movimento curdo, data l’importanza che i curdi siriani stanno rivestendo nella rivoluzione siriana. Le trattative sono ormai alla conclusione, la guerriglia curda si ritira dalla montagne. Il passo seguente sarà emendare la Costituzione, fra cui quel famoso passaggio dei ‘nemici della patria’, talmente ambiguo e talmente sottile che neanche i media osano varcare, vista la copertura di ieri: nessuno intervenuto, nemmeno a filmare cio’ che avveniva, nonostante fossero centinaia di miliaia le persone in strada.
Fra le tante istanze pacifiche, democratiche, pluriculturali e forse altermondialiste degli occupanti del Gezi Parki (su twitter l’hashtag in turco è stato presto affiancato dal famoso “#occupy”), c’è anche una componente pericolosa: gli ultranazionalisti venuti ad aggiungersi alla protesta in rappresentanza del potere militare. Una devianza che potrebbe portare, nella peggiore delle ipotesi, al quarto colpo di stato – dopo l’ultimo recentissimo degli anni ’80. Inoltre, potrebbe interrompere il lungo e faticoso processo di pace con i ribelli curdi e questo per la Turchia sarebbe un guaio, tanto più per la vicina Europa e per l’ormai incurabile Medio Oriente.
Una speranza resta: i giovani turchi non sono più i ’giovani turchi’ e la volontà, la voglia di pace e di cambiamento verso una maggiore libertà di espressione è già in atto da tempo.
La società progredisce: è sempre più colta, la crescita economica è a livelli quasi cinesi. Molti giovani vanno all’università, si spostano frequentemente in Europa grazie ai vari parenti emigrati o ai programmi Erasmus. I ragazzi e le ragazze sono sui social media, non più, o non tutti pronti a subire la propaganda dei ‘soliti media’ propinata dal governo.
In più, la coscienza politica è pulsante, appassionata, profonda, battagliera e le donne lottano contro la regressione sociale (aborto, questione morale, velo), un nuovo codice di indottrinamento religioso reinstaurato dal Premier Erdogan.
Ma il rischio che succeda come all’indomani delle primavere arabe è sempre in agguato.
Bisogna fare quindi attenzione a cio’ che sponsorizziamo nella nostra, seppur limitata, informazione quotidiana, nei nostri social network e blog. Informiamoci fino ai denti, perché fra questi milioni di persone, ce ne sono centinaia di migliaia pronte a restaurare una sorta di nazionalismo incallito che non nuocerebbe soltanto alla Turchia. Già in molti stanno cavalcando l’onda della primavera turca. Il partito nazionalista kemalista CHP ha già fornito logo e foto di bandiere di partito, riempiendo i tanti posti dei social network. MHP, il partito controllato dai militari, ha cominciato a diffondere la falsa notizia che questo movimento sia agitato e voluto dalla guerriglia curda, mentre alla base è chiaramente un movimento eterogeneo, senz’altro apartitico.
La ‘rivoluzione’ pacifica si potrebbe trasformare in un’ancora più forte repressione, come è già accaduto e come accadde ovunque nel mondo negli anni ’60-’70; ma come solo in Turchia diede luogo ad una terza didattura dieci anni dopo.
Una feroce dittatura, quella degli anni ’80, che rinchiuse, uccise e spinse all’esilio miliaia di poeti, artisti, cineasti, intellettuali, comunisti, socialisti e ogni tipo di ‘dissidenti’. Gli stessi, o meglio, le stesse istanze e contro la stessa repressione per cui in queste ore la Turchia tutta manifesta. Siamo tutti responsabili, siamo tutti coinvolti.Nonostante il rischio del poi, vedere in queste ore cosa sono stati capaci di fare questi popoli messi assieme, una varietà solo per metà turca, è stupefacente. Seguiteli, su facebook ma soprattutto su twitter: #direngeziparki, #direngaziparki, #occupyistanbul, #occupygezi, #occupyturkey
http://donnemigranti.wordpress.com/2013/06/01/la-rivoluzione-turca/