Mancano meno di venti giorni alla sentenza del processo in corso contro il senatore del PDL Antonio D’Alì,senatore dal 1994 di Forza Italia e ora del PDL,ad ogni modo berlusconiano della prima ora,sottosegretario all’Interno del secondo governo Berlusconi dal 2001 al 2006,presidente della provincia regionale di Trapani nel 2008 e attuale senatore dal 2008. D’alì è accusato da molti collaboratori di giustizia come il politico di Bagaria, Francesco Campanella,Vincenzo Sinacori,Giovanni Ingrasciotta,Francesco Geraci e Ciccio Milazzo. I retroscena della sua imputazione sono noti e pesanti da credere perchè riguardano riciclaggi massicci di denaro e azioni per zittire uomini dello Stato come il prefetto Silvio Sodano,trasferito di improvviso da Trapani ad Agrigento nell’estate del 2003 e vicende ricostruite dall’ex presidente del Trapani Calcio Nino Birritella che ha confermato che i mafiosi desideravano prima di tutto la cacciata di quel prefetto.
Per i pubblici ministeri Paolo Guido e Andrea Tarondo,il senatore D’Alì mantiene da venticinque anni un rapporto di ferro con la più potente organizzazione mafiosa sicilina,quella del castelvetranese Mattia Messina Denaro. Un rapporto condotto dapprima con il padre dell’attuale superlatitante don Ciccio Messina Denaro e poi proseguito con il giovane sanguinario e assassino rampollo di casa Matteo Messina Denaro.Tra l’altro non si capisce ancora una volta perchè in Sicilia quando uno dei capi-soprattutto quando si tratta del capo dei capi-la latitanza dura decenni e ci si trova di fronte a una chiara contraddizione.Carabinieri e polizia ricevono l’ordine perentorio dal centro di catturare il capo dei capi,si tratti di Riina, di Provenzano o di Messina Denaro ma passano molti anni o addirittura decenni(per Provenzano si arrivò addirittura a quattro decenni) senza che il mafioso sia trovato e assicurato alla giustizia. .
“Un politico-ha dichiarato il pm Tarondo del senatore D’Alì-che non ha mai rispettato la distanza di sicurezza dalla mafia,un rapporto con “quella mafia che “sa sparare quando è ora di sparare,che sa votare quando è ora di sparare.”
Le accuse sono molto gravi:da una fittizia compravendita di un terreno per garantire un riciclaggio di denaro per trecento milioni di vecchie lire,agli affari condotti mentre il senatore sedeva al Viminale,come sottosegretario agli Interni tra il 2001 e il 2006. Procedimenti in un primo momenti archiviati dalla procura di Palermo ma poi ripresi quando sono emersi, in alcune indagini a Trapani sui rapporti tra mafia e imprese, quando attraverso un’intercettazione telefonica si è appreso che un imprenditore svela che per sapere in anteprima le procedure di assegni condotti a Trapani nel 2005 in coincidenza dello svolgimento del grande evento della coppa America era al senatore D’Alì che ci si rivolgeva per appalti,vendita di immobili del ministero della Difesa e altri grandi affari.
Si apprende inoltre che nel 1994 dalla mafia era stato deciso che il banchiere D’Alì dovesse fare proprio allora il salto in politica.I mafiosi che nel 1994 si stavano occupando del partito Sicilia Libera avevano nel Trapanese il banchiere D’Alì ma poi arrivò proprio da Matteo Messina Denaro l’ordine di “votare Forza Italia e Tonino D’Alì”che si candidò al collegio Trapani-Marsala sconfiggendo il repubblicano Garraffa.L’unico comune che si è costituito parte civile nel processo contro il senatore è stato Castellammare del Golfo ed è significativo che il sindaco della città Marco Bresciani alle ultime elezioni non si sia ricandidato perchè è stato abbandonato dalla maggioranza proprio all’indomani della decisione di costituire il comune come parte civile.Una prova della grande difficoltà ancora una volta non soltanto di catturare il capo dei capi ma di attaccare in maniera efficace in un territorio nel quale le eterne complicità si sono consolidate e cristallizzate,nel quale il senatore di cui si parla ha confermato uno straordinario risultato elettorale in tutte le elezioni locali che si sono svolte nel primo quindicennio del ventunesimo secolo.