“Ciao Carmen, ho fatto, come ti vanno le cose.
È il mio maglione.
Come?
[…]
DAMMELO SUBITO O TI SPACCO LA FACCIA.
A quel punto ho avuto paura, non degli sguardi che avevamo addosso, e nemmeno di essere aggredita da Carmen. Ho avuto paura di come possono cambiare i sentimenti delle persone.
Come poteva qualcuno che mi aveva voluto bene odiarmi così. Mi sono tolta il giubbotto, ho levato il maglione e sono rimasta qualche minuto mezza nuda, col reggiseno e i jeans. Le ho dato il maglione, ho rimesso il giubbotto, ho pagato le mie birre e sono uscita dal bar”.
È uno dei brani più efficaci e divertenti del nuovo romanzo [Il posto delle donne, Ponte alle Grazie, 2013] di Rossana Campo, scrittrice irriverente dal linguaggio spudorato, artista figurativa e buddista emotiva come lei stessa si definisce.
La nuova storia è ambientata, come spesso accade nei suoi libri, a Parigi. Al centro ci sono le disavventure di Emma, 35enne lavoratrice precaria in un bistrot. È appena stata lasciata da Carmen suo grande amore, poco dopo incontra e s’innamora di una ballerina di lapdance, Maxine.
Pochi giorni e la giovane amante viene trovata uccisa in un parco. Emma si improvvisa detective e scopre l’altra vita di Maxine e la sua altra amante che è a sua volta fidanzata.
Nel girovagare alla scoperta della verità, Emma incontra anche Christelle, quarantenne fino a quel momento eterosessuale. E poi succede un po’ di tutto, a voi la scoperta del finale.
È un intreccio di relazioni, una storia appesa fra la vita e la morte, il sesso e l’amore, il desiderio e il disorientamento. Ed è una storia comica, anche se tinta di noir, perché si ride e ci si commuove, anche un po’ allo stesso tempo. È un racconto ironico, leggero, eppure così radicato in alcuni temi forti della nostra epoca.
Nonostante le recenti manifestazioni anti nozze gay, Parigi sembra davvero un bel posto per le donne, magari lesbiche. Hai scelto per questo di ambientare lì la tua storia, considerando anche che le città italiane non sono certo campioni contro l’omofobia?
Vivo a Parigi dal 1990 e la città è quindi diventata il mio luogo letterario, perché lì vedo i miei personaggi quando me li immagino. Non c’è dubbio che rispetto a questi ultimi anni italiani – direi berlusconiani – in cui il corpo delle donne come oggetto sessuale è stato l’unico modello possibile e l’omofobia non è di sicuro diminuita, Parigi è certamente una città dove si può vivere senza paura l’amore lesbico. Il sindaco è omosessuale, dichiarato da sempre.
Poi certo ci sono quelli che manifestano contro le nozze, ma i cattolici sono fisiologici. Lo stato francese decide indipendentemente dai preti e dalle chiese, la laicità non è intaccata anche quando leggi che parlano di diritti civili smuovono le anime più arretrate. Credo che siano grandi conquiste al di là di quel che si può pensare sullo stato o il governo francese.
Le tue personagge vivono in universo emotivo e sentimentale dove il riferimento non sono i maschi ma le donne. Pensi anche tu come Hanna Rosin [La fine del maschio e l’ascesa delle donne, Cavallo di Ferro, 2013] che si possa parlare di fine del maschio?
Luisa Muraro e altre da tempo parlano di fine del patriarcato e probabilmente una certa idea di organizzazione del mondo (anche capitalistica) sta venendo meno, il sistema è messo male e ne risentiamo tutti. Forse ci vorranno altri 50/100 anni prima di veder del tutto scomparire certe cose, far cadere certi modelli di riferimento, ma la famiglia tradizionale intanto è scoppiata, si è allargata, è composta diversamente. Accade sempre più spesso. E noi donne ci innamoriamo ancora degli uomini ma poi come riferimento stiamo fra noi, vedo che accade anche fra le giovani.
Anche perché l’indipendenza è il faro di tante donne. Nonostante in Italia siamo tornati molto indietro, penso solo al linguaggio, credo ci siano le condizioni per una politica delle donne.
Cito nuovamente dal tuo libro, un’altra battuta felice della protagonista dopo che Christelle le rivela che è incinta e le propone di stare con lei e crescere insieme il bambino. Emma le dice: “Però è vero che voi donne finite sempre per incastrare gli altri con questa faccenda dei figli. È così.” Si ride di gusto. Non credi ci sia un ritorno alla “mammitudine” acuta?
Curiosa questa domanda, anni fa mi intervistavano perché non facevo figli. Del resto la mia generazione (quella delle cinquantenni) ha dovuto forse marcare la differenza, prendere le distanze dalle mamme del prefemminismo e in molte non abbiamo fatto figli.
Secondo me le giovani riescono meglio a tenere insieme le due cose, affrontare il materno e la cura senza ridurre il loro ruolo, senza far venire meno la loro identità. Penso che più teniamo insieme le diverse parti di noi e più creiamo un nostro diverso immaginario. Qualcosa tipo: faccio tre figli ma con una donna!
È un libro in cui si sente la circolarità della vita e della morte. La morte come qualcosa che fa parte della vita. C’è però l’uccisione di una donna, inevitabilmente il pensiero va al femminicidio. Non credo tu abbia voluto scrivere un libro su quello. Piuttosto sei stata molto brava a non edulcorare i rapporti fra donne, la violenza esiste sotto varie forme e anche fra donne.
Sì infatti non ho pensato al femminicidio, anche perché quando ho iniziato a scrivere il libro era il 2010 e tre anni fa il fenomeno non era ancora al centro dell’attenzione come adesso. In generale credo che la violenza così come la agisce l’uomo (ti sottometto perché sei inferiore) non appartiene a noi donne, la sopraffazione è molto maschile. Ma anche noi agiamo un’altra violenza, come anche quella del parto che genera vita. Di certo con questo romanzo non volevo fare una pedagogia sull’amore lesbico. Tutti i rapporti sono conflittuali, possono essere dolorosi e scossi da forme di violenza, la letteratura fa luce su questi coni d’ombra. Di certo non mi sono posta il problema del politicamente corretto, racconto le donne per come le conosco. E mi piace raccontare le botte, soprattutto quando si danno/prendono stando attaccate alla vita.