Il PD vince quando fa il PD

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Per quanto a molti possa sembrare incredibile, la vera vittoria del centrosinistra alle recenti Amministrative non è stata quella, abbastanza scontata, di Marino a Roma quanto, soprattutto, quella del mite Giovanni Manildo a Treviso. Il crollo della storica roccaforte leghista, infatti, segnala che un’era, quella del berlu-leghismo, si è definitivamente conclusa.
Ricordate le Politiche del 2008? All’epoca, PDL e Lega raccolsero quasi il cinquanta per cento dei consensi, conquistando la maggioranza più ampia della storia repubblicana e dando vita al governo più discusso e discutibile di sempre. E le Regionali del 2010? A quei tempi, approfittando dei primi cenni di cedimento di un Berlusconi in crescenti difficoltà, Bossi fu abilissimo nel realizzare un colpaccio niente indifferente: fare eleggere Zaia alla guida del Veneto e Cota alla guida del Piemonte, così da suscitare nel suo allora vasto elettorato la suggestione di quella Padania autonoma e indipendente a lungo evocata e fortunatamente mai realizzata, nemmeno dal punto di vista fiscale.
Ebbene, oggi quell’Italia non esiste più. È stata spazzata via dal fenomeno Grillo, certo, ma anch’esso, in pochi mesi, sembra essere rientrato nelle dimensioni che si addicono a un movimento di pura protesta. Hanno pesato gli scandali, questo sì, perché un movimento che era nato in stile quasi grillino, esponendo il cappio in Parlamento e invocando il “sacro fuoco purificatore” nei confronti dell’intera classe dirigente della Prima Repubblica, senza distinzioni di sorta, ha dovuto fare i conti con il progressivo “imborghesimento” dei suoi esponenti più significativi, fino alla deflagrazione degli scandali di Belsito e alla messa a nudo della precarietà politica e strutturale del cosiddetto “Cerchio magico”. Ma, soprattutto, nella dissoluzione della Lega ha contato la crisi che ha travolto tutto e tutti e scritto la parola fine ad una favola, quella del secessionismo, per dirla con Bossi, o della Macroregione padana, per dirla con Maroni, che poteva andar bene quando il Nord-Est era ancora la locomotiva d’Italia ma non ora che chiudono decine di fabbriche al giorno, che gli imprenditori si suicidano, che gli operai finiscono in mobilità e che il mito delle regioni operose e laboriose è svanito insieme a centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Non tornerà più quella stagione e senz’altro è un bene, specie se si considera che, a parte qualche discreto amministratore locale, la Lega ha prodotto una classe dirigente complessivamente inadeguata, incapace di leggere le trasformazioni del Paese e, in particolare, della sua parte più produttiva e vitale: la stessa che si era proposta di rappresentare e ha finito invece con l’abbandonare al proprio destino.
Questi sono, dunque, i segnali che arrivano dalle Comunali: il collasso di ogni forma di leaderismo e di personalismo, il ridimensionamento degli urlatori di piazza e dei principali artefici dell’involgarimento e dell’imbarbarimento del nostro dibattito pubblico e l’affermazione di persone miti e cortesi, moderate nei toni e radicali nelle idee e, più che mai, capaci di farsi percepire come punti di riferimento da una fetta di popolazione assai più ampia del proprio elettorato tradizionale.
In poche parole, ha stravinto il PD ma non un PD qualsiasi. Ha stravinto il PD di coloro che ancora si stanno chiedendo per quali oscuri motivi non andasse bene Stefano Rodotà come presidente della Repubblica; ha stravinto il PD di coloro che parlano chiaro e si occupano di questioni concrete e vicine alle esigenze quotidiane dei cittadini, delegando ad altri i fumosi discorsi sul nulla che contribuiscono ad alimentare l’immagine della “casta” e dell’arroccamento della politica di fronte alla domanda di cambiamento che si leva dal Paese; e ha stravinto, infine, il PD di chi rifiuta la ultra-berlusconiana filosofia del “leaderismo” e preferisce, al contrario, puntare sulla partecipazione diffusa, sul princìpio di solidarietà, sul concetto di collettività e sul valore aggiunto rappresentato dalle comunità che si tengono per mano, in cui ciascuno porta il proprio contributo e nessuno si sente escluso.
Ha vinto, insomma, il “PD da marciapiede”: quello che a Roma in troppi si ostinano a non voler vedere o a non voler capire, o spesso tutte e due le cose insieme, pensando che basti qualche slogan senz’anima e qualche comparsata in televisione per riconquistare la fiducia di un popolo che appena due mesi fa è stato brutalmente tradito e umiliato, con la mancata elezione di Rodotà e Prodi e il governo “obbligato” con Berlusconi.
Detto questo, c’è un solo errore che il Partito Democratico adesso non deve commettere se non vuole correre il rischio di vanificare la straordinaria apertura di credito che ancora una volta ha ricevuto dalla propria base: sottovalutare il fatto che oggi il bipolarismo italiano non è più quello tra PD e PDL, tra centrosinistra e centrodestra, ma quello, assai più drammatico, tra votanti e astensionisti, con questi ultimi che stanno iniziando a superare la soglia del cinquanta per cento, rivelandosi in assoluto il primo partito del Paese.
Ci permettiamo, pertanto, di consigliare ai dirigenti democratici di ignorare le riflessioni di quei commentatori e di quegli editorialisti che sono arrivati addirittura a definire normale e quasi positivo il dato mostruoso dell’astensione (con la scusa che ci staremmo avvicinando agli standard degli altri paesi europei e degli Stati Uniti, come se la crisi globale della politica fosse un qualcosa di cui rallegrarsi) e a posare l’orecchio a filo d’erba per ascoltare il grido di disperazione che si leva ogni giorno da un’Italia sfibrata ma per nulla disposta a rinunciare alla propria dignità.
In conclusione, se davvero il PD vuole vincere le prossime Politiche deve cominciare a fare convintamente il PD anche a livello nazionale, possibilmente evitando di farsi scalare da chi propone modelli come quello dell’“uomo solo al comando” che gli elettori hanno dato prova di non gradire e non sopportare più.


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