“La vita cronica” (di cui vi riferiamo con involontario ritardo) è uno spettacolo prezioso e suggestivo, esplicitamente dedicato a Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova , giornaliste russe assassinate nel 2006 e 2009 per la loro opposizione al conflitto ceceno (alla nomenclatura criminale di Mosca). Con esso torna in Italia- dopo la prima edizione rappresentata al Festival di Pontedera due anni fa- la nuova versione di uno dei ‘classici’ dell’Odin Teatret, proposto Al Vascello di Roma fra una assorta miriade di altri spettatori, con turni di prenotazione che issavano con molto anticipo il ‘tutto esaurito’. A pieno merito, essendo la compagnia italo-danese(nonostante la sua fama e il suo alto magistero scenico)uno degli storici gruppi di ricerca a rischio di sopravvivenza, causa il declino dei ’ sostegni’ (non solo economici) che un po’ ovunque si riservano ai protagonisti dei arte e cultura, se essa è intesa ‘fuori dal coro’ e non mosca cocchiera di chi sta al timone del bastimento (Italia o Danimarca, in questo caso, cambia poco). Variegati ed ‘eccessivi’(per forza di tematiche) sono i personaggi della serata : una Madonna Nera, la vedova di un combattente basco, una rifugiata cecena, una casalinga rumena, un avvocato danese, un musicista rock delle isole Faroe, un ragazzo colombiano che cerca suo padre scomparso in Europa, una violinista di strada italiana, due mercenari.
“La vita cronica” (che di per sé è un ossimoro, un’aporia: la vita come malanno o come ostinazione a resisterne? Inestricabile) si svolge, idealmente, all’indomani di una terza guerra civile(anno 2030) nelle lande superstiti di alcuni paese del nord Europa. Individui e gruppi con etnie e retroterra difformi si ritrovano insieme e si scontrano sotto la spinta di fame, ingordigia, disperazione in un rettangolo scenografico che si allunga fra due schiere di spalti in scalea (assiepati di pubblico).
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“Non è l’innocenza né la conoscenza a salvare il ragazzo. Sarà l’ignoranza a fargli scoprire la sua porta. Tra lo sconcerto di noi tutti che non crediamo all’incredibile: che una vittima valga, da sola, più di ogni valore. Più di Dio”- annota Eugenio Barba nell’unico soprassalto di trascendenza della serata. Mentre si ridesta in noi il ricordo della dimensione mistica, iniziatica (ai limiti del ‘settarismo’) che per decenni è stata stile di vita e cifra espressiva dell’Odin Teatret fissandone storiche ‘avventure’ quali “Ornitofilene”, “Il vangelo di Oxyrhincus”, “Min fars bus”, sempre all’insegna di quel ‘teatro povero’ (esteticamente umbratile, migratorio, zingaro)che resta l’eredità etico-stilistica del maestro Grotowski.
Oggi scorporato verso una dimensione laica, secolarizzata, di immediata fruizione politica (oltre le cortine della allegoria e della visionarietà) di una affascinante metafora di vita e di morte, che valica la volontà di distruzione sempre vivida nel desiderio (nella fantasia) dei tanti Stranamore che ‘vegliano’ sul nostro futuro: mediante una ‘fuga in avanti’ che ha il coraggio di farsi speranza (in prospettiva) e crudeltà (immanente, tangibilmente) di uno ‘stato delle cose’ su cui apporre quel ‘peso del mondo’ che (già trent’anni fa) Peter Handke intuiva essere l’unico denominatore comune della condizione umana, non imbestialita da ingordigia,potere, sopraffazione del più debole.
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E quindi ciascun personaggio- per non soccombere all’abbrutimento coatto di una Storia, di cui non possiamo non dirci ‘collaboratori- si fa voce narrante, tramandante delle proprie esperienze nella ‘nudità’scenografica fatta di legname, tabuti, catene, mortai, oggetti sinistri in luce da lager o spelonca. Chi è stato immerso nella tragedia della guerra e ne porta i segni ; chi attraverso un vestito ricorda il marito e la felicità di una vita insieme perduta; chi vorrebbe finalmente normalità perché la normalità non gli è mai appartenuta “Il dolore che attraversa i corpi e le generazioni” Un universo che si è abituato a questo stato dell’essere, un genere umano arreso a quanto è amaramente e – chissà? – inevitabilmente divenuto irreparabile, frutto di un malessere cronico che porta all’impoverimento della specie.
Una Zattera della Medusa o Torre di Babele ove il rincorrersi delle lingue, dei suoni,delle posture, dei volti grotteschi e grondanti danno lo stordimento di simboli e significati a volte inaccessibili, più spesso efferati e contundenti (come le balate di ghiaccio che fanno da clave di colluttazione e frescura). Tutti in attesa (esaudibile?) di una nuova genesi, che sia anche laica palingenesi. O disvelamento (panteistico), come intuivano Bruno e Campanella, di altri mondi possibili.
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“La vita cronica”di Ursula Andkjær Olsen e Odin Teatret Con Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley regia Eugenio Barba. Teatro Vascello di Roma