Livio Ghersi
L’8 febbraio 1987 il quotidiano “La Stampa” pubblicò in prima pagina un articolo del senatore a vita professor Norberto Bobbio, con il titolo “Parole nella nebbia”. Socialista di cultura liberale, Bobbio prendeva di mira il programma di riforme presentato dal Partito socialista (PSI) per caratterizzarsi in occasione delle elezioni politiche del 14 giugno 1987 (per la decima Legislatura del Parlamento repubblicano). Facendo il proprio mestiere di intellettuale, Bobbio rimarcava allora come la parola “riformismo” fosse una scatola vuota, che occorreva riempire di contenuti. Laddove, poi, il contenuto “forte” consistesse nella proposta di modificare la Forma di governo della Repubblica per accogliere il modello presidenziale (in qualche sua concreta declinazione storica), doveva essere evidente a tutti che una siffatta proposta era di per sé legittima, ma era doveroso discuterne approfonditamente nel merito. Il Segretario del PSI Bettino Craxi rispose pochi giorni dopo con una lettera inviata al medesimo Quotidiano, sostenendo che Bobbio avesse argomentato per partito preso, senza aver letto il documento programmatico del Partito socialista: «Diversamente ogni critica diventa solo esercitazione astratta, pregiudiziale, di scarsa o nulla utilità. E questo vale anche per il prof. Bobbio il quale, sono certo, appresa ora l’esistenza di un documento che è frutto di un lavoro collegiale condotto con serietà e con metodo da scienziati, uomini di cultura, esperti, parlamentari, amministratori e uomini di governo e che rappresenta la somma e il portato di molte esperienze, vorrà dedicargli un nuovo articolo fondato questa volta sulla conoscenza di ciò che si desidera analizzare e criticare». Nel 1987 ero iscritto al PSI e ritenni che la questione mi riguardasse; nel mio piccolo, presi posizione (in difesa di Bobbio), con una lettera al Direttore del quotidiano “Giornale di Sicilia”, pubblicata il 22 febbraio 1987, a p. 9, con il titolo redazionale “Il maestro Bobbio e il Craxi rampante”. Poco tempo dopo, l’8 maggio 1987, scrissi due cartelle al Segretario della mia Federazione provinciale, per spiegare perché restituivo la tessera, che allegavo. In quel torno di tempo si erano allontanati dal PSI uomini che erano stati parte rilevante della storia del socialismo italiano, come Federico Coen, Gaetano Arfé, Antonio Giolitti. A me piacevano non perché socialisti, ma in quanto uomini liberi; capaci di esprimere un pensiero di qualità. La Forma di governo cosiddetta semipresidenziale non è stata inventata in Francia. Ad esempio, guardando alla storia di un un’altra grande Nazione europea, la Germania, si può verificare come la Costituzione di Weimar del 1919 prevedesse appunto l’elezione a suffragio universale diretto del Presidente della Repubblica, il quale poi, a sua volta, nominava il Cancelliere, ossia il vertice dell’Esecutivo, ed i ministri. In quel caso un Presidente fortissimo (si trattava dell’ex Comandante in capo delle Forze armate, il feldmaresciallo Paul von Hindenburg), oltre tutto dotato dalla Costituzione del potere di emanare decreti d’emergenza per il ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, non bastò a fronteggiare le forze antidemocratiche che alimentavano la protesta popolare, nelle difficilissime condizioni economiche in cui si trovò la Germania dopo la conclusione della prima guerra mondiale. Quanto avvenne in Francia nel 1958 fu unanimemente interpretato come una svolta in senso autoritario: si poneva fine alla Quarta Repubblica, caratterizzata da un regime parlamentare imbelle e inconcludente e, finalmente, si creavano le condizioni per un Governo forte. Se la Francia si è mantenuta il Paese civile che conosciamo è perché protagonista di quella svolta è stato Charles De Gaulle e non un qualunque militare golpista sudamericano. I liberali italiani degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, in particolare quelli che leggevano il settimanale “Il Mondo” diretto da Mario Pannunzio, non erano comunque estimatori di De Gaulle. In un articolo del novembre 1962, titolato “Il modello inglese”, così scriveva, ad esempio Vittorio De Caprariis, a proposito della Francia: «La nuova riforma darà vita ad un esecutivo stabile, che stabilmente si scontrerà col legislativo in conflitti durissimi e lunghissimi, che potranno essere risolti solo con traballanti compromessi. De Gaulle imparerà, così, che la stabilità del governo non implica automaticamente la sua efficienza (una verità elementare che ogni osservatore di cose politiche avrebbe potuto suggerirgli)» (cfr. Vittorio De Caprariis, “Scritti”, volume quarto “Politica e ideologia”, Messina, 1992, p. 205). Il lettore si chiederà perché richiamo queste “anticaglie”. Perché in Italia i fautori del presidenzialismo sono sempre stati riconoscibili in campo politico: da Almirante a Fini, da Pacciardi a Craxi, da Berlusconi ad Alfano. Ora, invece, grande è la confusione sotto il cielo. Si propone il grande baratto: modificare la Forma di governo come vuole il Centro-destra, in cambio di una legge elettorale basata sui collegi uninominali a doppio turno, come vuole il Partito democratico. Così la grande riforma è servita, et voilà! Gli aspiranti nuovi Padri costituenti scalpitano, perché vogliono passare alla Storia. I fautori del decisionismo sostengono che ora basta: per troppo tempo si è parlato di riforme costituzionali senza giungere a conclusioni operative. L’argomento del “troppo tempo” potrebbe essere ribaltato logicamente: quando una proposta non convinca, non diventa più autorevole perché se ne è discusso molto. Per modificare la Costituzione è richiesto il consenso della maggioranza qualificata dei deputati e dei senatori. Ci sarà pure un motivo se questa maggioranza finora non si è raggiunta. Così come ci sarà stato un motivo se nel referendum confermativo del 25 e 26 giugno 2006 oltre 15 milioni e 470 mila italiani risposero “No” alla riforma costituzionale allora approvata da una maggioranza parlamentare di centro-destra. Invero il riformismo costituzionale ha già dato qualche prova di sé, ad esempio con il rafforzamento dell’esecutivo nella dimensione regionale. Ciò è servito a riportare i conti pubblici sotto controllo e a garantire buona amministrazione? Difficilmente un osservatore spassionato darebbe una risposta positiva. In particolare, nella Regione più antica, la Sicilia, non c’erano mai state conclusioni anticipate delle legislature dell’Assemblea regionale siciliana prima delle modifiche dello Statuto introdotte con legge costituzionale n. 2 del gennaio 2001. Da quando il Presidente della Regione è eletto a suffragio universale diretto, già due volte si è dovuto anticipare il voto regionale. Dietro l’impudenza dei decisionisti soffia uno spiritello autoritario, che ci fa rabbrividire. L’obiettivo dichiarato è quello di porre fine alle chiacchiere ed assicurare una salda posizione di comando all’uomo (o alla donna) del destino. Con la legge elettorale vigente hanno già cercato di risolvere metà del problema: indebolire e delegittimare il Parlamento, asservendolo al Governo attraverso il meccanismo del premio di maggioranza. Ora si tratterebbe di completare il disegno autoritario: stabilire un Governo fortissimo, legittimato direttamente dal voto popolare; mantenendo contestualmente — in nome della governabilità, s’intende — nella legge elettorale meccanismi che garantiscano maggioranze parlamentari conformi all’indirizzo politico del Presidente. In fondo, è l’uovo di Colombo. Dare tutto il potere ad un Dominus; non importa chi sia (ovviamente per qualcuno, nell’immediatezza, meno male che Silvio c’è). Questo Dominus potrebbe anche essere a servizio di più forti poteri esterni, i quali preferiscono che la sovranità nazionale italiana si riduca ad un simulacro. Di fronte a questa prospettiva di luminoso avvenire, possono temere e risentirsi soltanto quei conservatori che, come noi, ancora ragionino di quisquilie come gli equilibri istituzionali fra i diversi poteri, i pesi e i contrappesi, eccetera. Siamo tanto ottusamente conservatori da prendere sul serio persino il vecchissimo Montesquieu e la sua bizzarra teoria della separazione fra i poteri. Che pure gli Stati Uniti d’America continuano ad applicare, equilibrando i poteri del Presidente con i poteri del Congresso. Ma i nostri giuristi e costituzionalisti, si sa, possono fare molto meglio della Francia e degli Stati Uniti.