Come già accadeva in “Sabato domenica e lunedi”, primo incontro (da regista) di Toni Servillo con il repertorio di Eduardo, anche la messinscena delle “Voci di dentro” mira ad una sorta di neutralità espressiva, di forte candore scenografico (quinte, fondale, retroscena) che equivale ad un tentativo, sostanzialmente legittimo e messo a segno, di estrarre De Filippo dal quel contesto neorealista (coevo della cinematografia del dopoguerra) che colorava di tonalità bozzettistiche, post-folkloriste i suoi generosi apologhi morali. Dunque l’opportunità di attribuire alle sue commedie (come aveva già capito Lawrence Olivier mezzo secolo fa) uno spessore più ampio (e ‘universale’) della verace ribalta partenopea.
In cosa consisterebbe, anzi consiste, la classicità di Eduardo? Nel suo farsi paradigma, oltre la convenzione dello squarcio partenopeo, di una condizione umana che rivela (in ogni latitudine) la impraticabilità dei rapporti familiari ed interpersonali non in direzione antiborghese (Eduardo frequentò Pirandello), ma di più diffusa estrazione plebea. Come a significare che è solo una cruda menzogna, un tribale malinteso l’assioma-fandonia che attribuisce alle ristrettezze economiche (al ritegno di non darle a vedere, di barare con se stessi) quel ‘bilanciamento’ di solidarietà, di mutuo soccorso che furono chimera dell’ideologia a noi più cara.
Si radicalizza invece la convinzione di essere, con “Le voci di dentro”, imbrigliati in una delle commedie più ostiche, scorbutiche, umorali di un De Filippo (compiaciuto di essere) fustigatore di costumi e superstizione popolare. Quella –in particolare -che va ad intingersi tra le radici meridionali e meridionaliste di atavici egoismi, invidie, endemiche ristrettezze economiche. Vena creativa (quella del mistero-buffo, del rapporto bizzarro e credulone con l’universo degli antenati, con una fede a buon mercato nel paranormale fasullo) che ritroveremo in almeno altre due commedie amare, esilaranti e di pavidità piccolo borghese, “Non ti pago” e “La grande magia”
Le quali, insieme a “Questi fantasmi”, costituirebbero una sottotraccia, tutta da indagare, nella suddivisione canonica che Eduardo fissò al suo repertorio fra “cantate dei giorni pari” e “cantate dei giorni dispari”.
Poco rappresentata e nota solo ai collezionisti di teatro in home video, nell’edizione recitata dallo stesso Eduardo agli inizi degli anni settanta, “Le voci di dentro” -di cui tuttavia si annovera una grumosa edizione diretta tre anni fa da Francesco Rosi, protagonista Luca De Filippo- è una sorta di sghembo, precettistico ‘allegoria di vita tribolata’, dove non è l’intreccio a prevalere, ma l’insidia e la miseria umana di esili situazioni tragicomiche, virate al color del veleno, della ripicca, della malignità perdente.
Per poi dedurre che i (presunti) “malamente” di turno, detestabili condomini del fantasmatico palazzo, non sono peggiori o migliori di chi, a pancia vuota e cattiveria nel cuore, aveva supposto, a loro carico, crimini e misfatti da romanzaccio d’appendice.
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La vicenda ha infatti per protagonista tale Alberto Saporito, il quale (per incubo, sogno o sonno a digiuno) è sicuro di avere ‘percepito’ un efferato delitto commesso dai vicini di casa, patologici componenti della famiglia Cammaruta. Le circostanze, e le goffe indagini, volgono ad una sorta di cage aux folles, perennemente partenopea: ovvero esagitata, lepidamente macchiettistica, logorroicamente fatua, ma funerea. Si scoprirà che il (supposto) cadavere appartiene ad una persona viva e vegeta, riapparsa a fine commedia, mentre lo zio del Saporito, al piano sottostante (surreale, in sciopero contro il mondo) smetterà di anelare “un po’ di pace!”, a suon di petardi e giochi d’artificio, poiché il Padreterno, o chi per lui, lo avrà (di buon grado) avocato agli inferi.
Pur se la morale di fondo sembra datarsi fra ‘il risaputo e il generico’ dell’interminato dopoguerra edoardiano (‘il vero delitto consiste nel diffidare, nel vivere in perenne astio, gli uni con gli altri’), la parabola che ne trae Toni Servillo (per questo nitido allestimento che si appresta ad affrontare una lunga tournée americana) è del tutto simbiotica al paesaggio e antropologia umana di cui si compone (ovvero il meglio dei caratteristi napoletani non ‘sopra le righe’). Tutti abitanti una sorta di neutro vestibolo infernale, immune da reviviscenze veriste e quindi sospeso in un limbo di quinte e fondali color bianco-latteo, come a voler citare (anche tramite taglio di luci) un’idea di lutto e privazione prossima alle iconografie orientali
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Stringata e lodevole l’interpretazione di Servillo, che dal calco eduardiano si scrolla per gestualità asciutta ed eloquio dialettale: privo di ansimi, arcaismi, tempi lunghi fra una battuta e l’altra. Al servizio di una recitazione ‘studiata’, ma non mimetica, rispetto ai modelli della tradizione popolare. Con a fianco, una compagnia di eccellenti comprimari, da Peppe Servillo, viscido e infingardo nella speranza che la rovina del fratello possa tornargli utile alla svendita delle carabattole parerne a Gigio Morra, ‘grande invalido’ (impossibilitato ‘a faticare’) e contestato pater familias della ‘gens’ Cammaruta, non assassina, ma serpente a sonagli sempre in fermento
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“Le voci di dentro” di Eduardo De Filippo. Regia di Toni Servillo. Con Betti Pedrazzi, Chiara Baffi, Marcello Romolo, Lucia Mandarini, Gigio Morra, Peppe Servillo, Toni Servillo, Antonello Cossia, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Mariangela Robustelli, Francesco Paglino, scene Lino Fiorito costumi Ortensia De Francesco luci Cesare Accetta suono Daghi Rondanini, assistente alla regia Costanza Boccardi – Coproduzione Teatro di Roma –Piccolo Teatro di Milano