di Pietro Orsatti
ROMA – Le immagini che ci arrivano dal Brasile e dalla Turchia ci mostrano qualcosa di inedito, almeno per quanto riguarda gli ultimi anni. Non siamo davanti all’emergere di movimenti sul modello degli “indignados” o di “occupy WS” anche se c’è una relazione non marginale con quel tipo di iniziative non fosse altro sul piano storico.
Ed è anche necessario chiarire che non siamo davanti a una sorta di continuazione delle “primavere arabe” per quanto riguarda la Turchia. Stiamo assistendo a qualcosa di profondamente diverso proprio in relazione ai due paesi dove tutto questo sta accadendo. Il Brasile è certamente uno degli stati destinati (per tasso di crescita, livello tecnologico e di industrializzazione e materie prime) a dominare – e già in parte lo sta facendo – l’economia mondiale reale e non solo finanziaria. Allo stesso tempo la Turchia è il paese che ha reagito meglio e perfino ha finito per usufruire delle opportunità della crisi finanziaria europea nel Mediterraneo. Nessun altro paese ha retto a questi sei anni disastrosi nell’area. Eppure la protesta è esplosa proprio qui. Nonostante i dati su pil e sulla crescita.
Le due proteste hanno dei punti di contatto profondi: beni comuni e diritti. Più chiaramente in Turchia ma altrettanto centrali in Brasile il diritto a decidere su temi come l’accesso allo studio e alla sanità e sui beni fondamentali delle comunità nazionali e locali. È più di una critica al neoliberismo, è il cercare di dare gambe a un progetto inclusivo (di tutti) a assistenza, opportunità e decisione. È una richiesta di piena cittadinanza quella che viene dalle piazze dei due paesi, e qui la differenza sostanziale con il movimento degli indignados e di occupy che avevano come centrale la critica agli aspetti finanziari del neoliberismo: una risposta “emergenziale” più che strategica. E anche sul piano della radicalità dei fenomeni esistono profonde differenze. La radicalità certo è elemento comune, ma è la radice strategica a presentare differenze.
Le reazioni dei governi dei due paesi (andando oltre alla gestione dell’ordine pubblico) sono state assolutamente differenti. In Turchia si è rifiutato qualsiasi tavolo di dialogo puntando tutto sulla repressione e criminalizzazione del movimento. In Brasile il governo guidato dal Pt (il Partito dei lavoratori già guidato da Lula) ha fatto una scelta diversa. Le organizzazioni sindacali e i movimenti sociali in Brasile sono enormi (in termini di aderenti) e hanno una credibilità e una capacità inimmaginabile per noi europei di pesare sul piano politico e di conseguenza di condizionare un governo che ha come riferimento elettorale proprio quei movimenti. Da qui le prime timide aperture (sanità, accesso allo studio, rimodulazione dei finanziamenti per i Mondiali di calcio del prossimo anno).
Per la prima volta, questo il dato che mi interessa segnalare, ci troviamo davanti all’emersione di due movimenti legati più alla trasformazione profonda della società e all’ampliamento del concetto di cittadinanza che alla protesta radicale alla crisi economica. Questi movimenti sono figli dei primi Forum Mondiali di Porto Alegre. E hanno la stessa matrice di quei movimenti che in Italia sono stati repressi nel sangue e criminalizzati a Genova nel 2001.
Da Dazebao.it