Proseguono le polemiche sulla proposta di legge sulla cittadinanza ai nati in Italia sostenuta dal ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge. Urbinati insegna Scienze politiche alla Columbia University di New York e per Laterza ha appena pubblicato «La mutazione antiegualitaria. Intervista sullo stato della democrazia».
Di Nadia Urbinati
Si scrive in abbondanza sulla strana maggioranza che governa il nostro paese dopo le ultime consultazioni elettorali. La politica dell’impunità di Berlusconi (che il Pdl cerca di attuare con l’appoggio addirittura del suo avversario storico, il Pd) è il segno massimo della mostruosità di questo connubio. Ma la stranezza si manifesta anche su altre questioni, per esempio quella dell’inclusione nella cittadinanza dei figli degli immigrati nati in Italia. Qui la distanza tra Pdl e Pd è perfino più radicale. Infatti mentre sull’impunità di Berlusconi il tema del contendere è la legalità (una cosa che in una buona democrazia dovrebbe unire destra e sinistra), sull’inclusione la differenza è tutta politica e ideologica. E la contraddizione insita in quest’alleanza è irrisolvibile.
In una delle sue prime interviste come ministro per l’Integrazione, Cécile Kyenge ha detto a commento della proposta di legge sulla cittadinanza ai nati in Italia: «È difficile dire se ci riuscirò; per far approvare la legge bisogna lavorare sul buon senso e sul dialogo, trovare le persone sensibili». La considerazione che ha suscitato fortissime polemiche da parte di autorevoli esponenti del Pdl, in primo luogo il capogruppo del Pdl al Senato Renato Schifani (in aprile candidato per il suo partito alla Presidenza della Repubblica). Segno evidente di una differenza insormontabile: da un lato il ministro Kyenge fa sue le parole pronunciate dal presidente della Repubblica secondo cui è «una follia che i figli degli immigrati che nascono qui non siano italiani»; dall’altro lato, questa «follia» partecipa al governo del paese.
La contraddizione sul principio della cittadinanza è insanabile. Da un lato lo ius soli dall’altro lo ius sanguinis. Da un lato l’idea che il centro di gravità della cittadinanza sia la persona singola (non la sua famiglia o l’etnia di appartenenza o il colore della pelle), dall’altro l’idea che conti invece la famiglia e l’etnia e il colore della pelle. Distanza insormontabile. La democrazia chiede ai suoi cittadini solo una competenza: obbedire alle leggi. Se siamo responsabili abbastanza da essere punibili per le nostre azioni allora siamo competenti abbastanza per decidere: anche per acquisire questa consapevolezza la scuola di base è obbligatoria. Eppure quanti sono oggi in Italia coloro che, nati qui, imparano la lingua italiana e studiano la nostra storia come fosse la loro, obbediscono alle leggi dello Stato e poi quando compiono la maggiore età non possono votare per il governo del paese? E al contrario, quanti sono gli italiani che vivono da più di quattro generazioni all’estero, non conoscono più la lingua e la storia italiana, non pagano le tasse in Italia eppure lo ius sanguinis dà loro il privilegio di eleggere rappresentanti nel nostro Parlamento? Si tratta di una «follia». E sulla follia non si dovrebbero fare connubi.