C’era una volta il freelance. Si potrebbe cominciare il pezzo così ma già al secondo periodo bisognerebbe cambiare soggetto perché pare che di freelance in Italia non ce ne siano quasi più. Almeno non di quelli che potremmo definire puri. Se freelance è il giornalista libero professionista che scova le notizie, le confeziona e le vende a più committenti traendone una commisurata e consistente retribuzione, allora possiamo dire con certezza che l’Italia non è un paese per freelance.
DI LIBERO C’E’ SOLO IL FREE DEL NOME
“La scelta di essere indipendenti e autonomi – afferma Giovanni Rossi, presidente della Fnsi, Federazione nazionale stampa italiana – è patrimonio di pochissimi colleghi, ammesso che ce ne siano. Ci sono giornalisti che aspirano a rimanere senza vincoli ma non di certo tra le ultime generazioni: per questi lo stato di lavoratore indipendente è obbligato. Non si trova lavoro all’interno delle redazioni, perciò se si vuole fare questo lavoro non c’è alternativa: lo si fa da autonomo o da falso autonomo”. I giornalisti freelance nella Penisola sono tanti e farne una stima puntuale è quasi impossibile: giovani o meno giovani obbligati all’indipendenza, sottopagati – o non pagati affatto – che vedono ogni giorno svilita la propria professione e la propria dignità lavorativa.
“I freelance in genere – continua Giovanni Rossi – hanno diversi committenti. Se un giornalista lavora tutto il giorno per un solo committente, e magari lo fa pure da casa, in realtà è di fatto un lavoratore dipendente. E questo è il caso anche di giornalisti precari in nero che affollano le redazioni”.
Una falla nel sistema evidenziata anche da Stefano Tesi, giornalista che ha lanciato nel suo blog un censimento di giornalisti freelance italiani: “Sui 2000 stimati hanno risposto solo in 57. E perché? Perché molti non sanno neanche cosa voglia dire freelance o, se lo sanno, scoprono di non esserlo. Mi pare – continua Tesi – che ci sia la volontà di non fare emergere l’esistenza di categorie diverse di giornalisti da quelle codificate e riconosciute finora”. “Lavoro autonomo e lavoro precario dovrebbero essere sue cose distinte”, afferma Giovanni Rossi, che esprime la necessità di convocare gli stati generali dell’informazione precaria per conoscere in profondità il fenomeno, monitorarlo e normarlo nel modo più giusto possibile. “Abbiamo chiesto alla Giunta esecutiva federale di convocare gli stati generali o il 26 e 27 giugno o l’11 e il 12 luglio. Abbiamo raccolto diverse sottoscrizioni – continua Rossi – ma adesso sta alla Giunta deliberare”.
Fabrizio Morviducci, giornalista toscano dell’Osservatorio sul precariato dell’Ordine che ha sottoscritto l’appello della Fnsi, ribadisce quest’anomalia tutta italiana: “I freelance sono una fetta del precariato. Sono persone che svolgono lavoro a tempo pieno ma in condizioni non dignitose. Fino a quando ci saranno persone che pensano di poter scrivere senza remunerazione solo in cambio di visibilità, non andremo molto lontano. Lo slogan del coordinamento dei giornalisti precari pugliesi è sacrosanto: l’informazione non è un hobby”.
SCRIVERE PER LA GLORIA
La visibilità è il panem et circensem che gli editori elargiscono ai giornalisti precari adducendo la scusa – in buona parte fondata – della crisi che sta investendo ormai da anni il settore. Ma molti non ci stanno più e denunciano con i mezzi più disparati. E’ di pochi giorni fa la notizia di un giornalista americano Nate Thayer che ha pubblicato online la conversazione con Olga Khazan, editor de The Atlantic che gli aveva chiesto di inserire un suo pezzo sui rapporti tra basket e diplomazia con la Corea del Nord a titolo gratuito. La lettera ricevuta dal The Atlantic e resa pubblica da Thayer: “Grazie per la risposta. Per il fine settimana? 1200 parole? Purtroppo non possiamo pagarti, ma raggiungiamo 13 milioni di lettori al mese. Capirei se questo accordo non ti interessasse, ma volevo sapere se eri interessato. Grazie per il tuo tempo, bellissimo articolo! Svilimento della professione che vola anche oltreoceano e arriva in Italia. Gabriele Barbati, giornalista freelance corrispondente dalla Striscia di Gaza che ha scritto a Franco Abruzzo per lamentare la scarsa considerazione e le remunerazioni inique o inesistenti da parte dei media italiani.
LA RETE NON E’ UN POSTO FREELANCE-FRIENDLY
A mettercisi di mezzo è poi anche la Rete che lungi dall’essere risorsa, spesso si trasforma in vetrina abbagliante e luogo di sfruttamento dei giornalisti appassionati che esercitano la professione. “Il web è frontiera – afferma Morviducci – è il futuro ma al momento è solo far west, non ci sono margini definiti. La gente non è incline a pagare contenuti in rete. Proprio per questo è lì che assistiamo a forme di precariato ancora più striscianti rispetto alle testate tradizionali”. Una delle grandi pecche del giornalismo online, sarebbe secondo Rossi, la mancanza di un giornalismo ‘industriale’, ovvero “un giornalismo professionista che consente a chi lo esercita di trarre un reddito sufficiente per la vita sua e della sua famiglia”.
Secondo Stefano Corradino, direttore di Articolo 21, “se effettivamente nel 2043 l’ultima copia del New York Times verrà stampata, decretando la fine del giornale cartaceo, la situazione è destinata a peggiorare progressivamente. Già oggi – continua Corradino – le testate giornalistiche locali esercitano vere e proprie forme di caporalato, marciando sulla passione connaturata a questo mestiere”.
TUTELE DI UNA CATEGORIA “INDIVIDUALISTICA”
Di fronte a una situazione caotica e di indiscriminato precariato e svilimento della professione, ci si chiede quali tutele abbiano i freelance. “Sulla carta ne avrebbero anche – afferma Rossi – ma se prendiamo il caso della recente riforma del lavoro introdotta dal Ministro Fornero ci accorgiamo che non è così. Questa infatti prevede – continua Rossi – che le partite iva il cui reddito deriva per l’85% da un solo committente siano dichiarate false e che il lavoratore venga assunto. Questo chiaramente vale per tutti meno che per i giornalisti”. Eppure sembra che ci siano frizioni anche all’interno della stessa categoria: “Il sindacato deve assolvere alla sua missione – spiega Morviducci – ovvero garantire diritti a chi non ne ha. Attualmente noi abbiamo una fetta minoritaria di persone tutelate dal sindacato a fronte di una massa critica di colleghi che stanno fuori, i quali non solo non hanno diritti ma non hanno nemmeno la più lontana ipotesi di averne nel medio termine”. “Articolo 21 lavora proprio per costruire anche una sorta di solidarietà mediatica da parte dei colleghi – dice Corradino – nei confronti dei giornalisti precari che si trovano spesso isolati all’interno delle redazioni e che sono più ricattabili e oggetto di intimidazioni e querele”. Passi in avanti sono stati fatti e anche di una certa importanza. La Carta deontologica di Firenze, che regolamenta lo sfruttamento del precariato giornalistico e l’approvazione della legge sull’equo compenso sono due punte di una battaglia combattuta da tanti per riconoscere dignità a una professione delegittimata a più livelli e da più attori del vivere civile.
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“Con la Carta di Firenze abbiamo voluto fare passare il messaggio – spiega Morviducci – che sfruttare i colleghi è disdicevole e sanzionabile a livello deontologico”. Ma anche queste conquiste rischiano di rimanere vane se non si monitora lo stato attuale delle diverse professionalità. “L’equo compenso non è una soluzione al problema dei lavoratori in nero – afferma Rossi – né di quello dei precari. Vale per i freelance, ma se uno lavora a tempo pieno per una redazione non è un freelance e va contrattualizzato”. Per cambiare il sistema dall’interno e richiamare l’attenzione sul tema del precariato, poi, alcuni giornalisti precari hanno deciso di candidarsi alle prossime elezioni dell’Ordine. Ciro Pellegrino è uno di questi: “La candidatura è nata da un’esigenza, ovvero perché chi si era candidato a governare l’Ordine regionale, pur avendo preso in considerazione il discorso dei precari non aveva deciso ancora di abbracciare in maniera forte la causa”.
Nelle intenzioni di Pellegrino c’è quella di porre in agenda le tematiche scottanti che riguardano la categoria a prescindere dall’elezione o meno. Per questo insieme al Coordinamento dei giornalisti precari campani hanno scelto di proporre dei video di campagna elettorale – uno dei quali presentato al Festival internazionale del giornalismo di Perugia – per suscitare la curiosità di un pubblico sempre più vasto.
IDEE CHE CAMBIANO LA PROFESSIONE
Esistono poi delle realtà di reazione alla crisi dilagante che fanno ben sperare per il futuro e che danno il polso della passione che muove questa professione. E’ il caso di esperienze come quella di Next New Media, service giornalistico multimediale che offre servizi giornalistici per qualsiasi piattaforma. Andrea Battistuzzi, uno dei fondatori, racconta: “Ho fatto diverse esperienze di precariato giornalistico fino ad arrivare alla constatazione che il mercato del lavoro italiano per questo settore non va. Così abbiamo deciso di mettere insieme un network di professionisti dell’informazione che realizzassero contenuti multimediali, rispondendo così alla necessità di molte testate giornalistiche che vogliono essere presenti sul web ma non ne hanno i mezzi o le risorse”.
Come qualsiasi freelance, sfruttando i contatti a disposizione, la redazione di Next New Media è riuscita a imporsi nel mercato e a prendere diversi appalti per la gestione di intere testate o di canali tematici di queste. “Abbiamo reso più stabile la professione del freelance – spiega Battistuzzi – l’abbiamo industrializzato, creando una struttura imprenditoriale in quello che il freelance in genere fa autonomamente”. Next New Media non è l’unica realtà a porsi in questo modo nel mercato dell’informazione: Spazi Inclusi e Fps Media per l’Italia applicano la stessa mentalità imprenditoriale alla professione, seppur declinandola in maniera diversa.Ad esempio, Fps Media, costituita da un gruppo di professionisti provenienti dalla scuola di giornalismo Carlo De Martino di Milano, realizza inchieste e servizi multimediali messi a disposizione delle grandi testate giornalistiche italiane.
Anche Spazi inclusi, uno studio associato torinese che si occupa di fornire contenuti multimediali per testate giornalistiche oltre a creare progetti editoriali – dai contenuti alla grafica – per enti e aziende, nasce nel 2011 come reazione a un mercato del lavoro che sbarra le porte ai freelance. “In Italia freelance non vuol dire libero professionista, al massimo sfigato. Essere assunti – dice Clara Attene, una delle socie di Spazi Inclusi – è molto più che un terno al lotto. Così visto che collaboravo per il Sole 24 Ore, dividendo fisicamente la scrivania con una collega oltre che condividendo i lavori, abbiamo deciso di metterci in proprio e continuare a fare quello che avevamo sempre fatto in un modo diverso: più stimolante, più libero e flessibile”.
Sfruttando i contatti raccolti durante l’attività di freelance e partecipando a eventi-vetrina come la Social media week, lentamente Spazi Inclusi ha cominciato a farsi conoscere. “Lavorare con le redazioni implica una pratica di educazione reciproca – continua Attene – non è facile estendere il rapporto di fiducia personale costruito negli anni al resto del gruppo. Ma è proprio questo il punto di forza di Spazi Inclusi: il freelance da solo magari riesce a prendere un certo numero di lavori e con quelli non è detto riesca a vivere. Lavorando all’interno di un gruppo ci si organizza e dove non arriva uno va l’altro garantendo sempre la massima professionalità. Io mi alzo la mattina e sono contenta di lavorare in un posto che ho contribuito a creare. Non so se sarebbe così lavorando in una redazione”.
All’estero invece è di nuovo conio Newsmodo, una piattaforma web fondata dal giornalista australiano Rakhal Ebeli, che collega i media attraverso una rete mondiale a professionisti dell’informazione. Una piattaforma di committenza e vendita, secondo le regole della deontologia che si sta espandendo in Europa, America, Medio Oriente e Asia.
In uno scenario simile verrebbe voglia di pensare che, come sottolineava ieri il Wall Street Journal, fare il giornalista sia il mestiere peggiore del mondo. “Terzani diceva di voler fare il giornalista – racconta Morviducci – perché gli piaceva l’idea di avere un posto in prima fila sui fatti del mondo. A mio avviso, vale ancora la pena fare questo lavoro: è un esercizio di intelligenza e permette di essere meno indottrinabile di tanti altri cittadini”.
* Giornale on line dell’Istituto per la Formazione al Giornalismo di Urbino