Pur considerando il governo Letta una necessità storica purtroppo ineluttabile, avvertiamo nel Paese un clima davvero inquietante. Più che nel Paese, a voler essere sinceri, in alcuni centri di potere e nei loro organi d’informazione di riferimento: quei giornali e quelle trasmissioni televisive che, da sempre, tremano alla sola idea dell’uscita di scena di Berlusconi perché ciò comporterebbe un effettivo passaggio d’epoca che, con ogni probabilità, porrebbe fine anche al loro dominio e alle tante auree carriere che sono prosperate nel corso del ventennio.
Prima o poi, per forza di cose, quel giorno arriverà, ma non è questo a spaventarli più di tanto: la prospettiva l’hanno messa in conto da tempo e del lato umano, ovviamente, non gliene importa niente. Ciò che li preoccupa mostruosamente, invece, è quello che accadrà un minuto dopo, quando il Cavaliere sarà uscito di scena e il suo regno inizierà a vacillare, non essendo il PDL un partito in grado di sopravvivergli.
Noi, da anni, nonostante le accuse di estremismo ed odio inveterato nei suoi confronti, ci sforziamo di spiegare all’opinione pubblica, e anche a quella parte del centrosinistra ben rappresentata dai centouno soggetti che hanno affossato la candidatura di Prodi, che il nostro vero avversario non è Berlusconi in sé quanto, più che mai, ciò che di negativo esso rappresenta.
Al di là delle sue vicissitudini giudiziarie, infatti, la figura del Cavaliere incarna un’idea plebiscitaria della democrazia, in netto contrasto con quanto previsto dalla Costituzione; l’assurdo princìpio secondo cui un leader politico, solo perché gode tuttora di un grande consenso, sia al di sopra di ogni regola; la progressiva perdita di valori e di ideali, suggellata dal trionfo di un pragmatismo cinico e spietato la cui frase simbolo è “ben altro è il problema” e, infine, la scarsa considerazione di chiunque si opponga al suo strapotere, visto come un illuso, un ingenuo, un fallito, un fastidioso ronzio di sottofondo di cui non darsi pena, neanche quando si tratta di una comunità ben organizzata che chiede verità, giustizia, libertà, lavoro e, mai come ora, l’apertura di una grande stagione dei diritti e delle riforme che davvero servono alla Nazione.
Perché questo è il vero rischio che corriamo in questa fase di toni bassi e polemiche ridotte al minimo sindacale (solo da parte nostra, naturalmente, perché il centrodestra si è ben guardato dal mettere in pratica ciò che va predicando oramai da settimane): rischiamo che al sacrosanto processo di “pacificazione nazionale”, si sostituisca ben presto un pericolosissimo processo di riscrittura o, peggio ancora, di rimozione del ventennio berlusconiano, nel tentativo di costituzionalizzare una palese anomalia e far passare l’editto bulgaro o le vagonate di leggi “ad personam” per episodi di poco conto, al massimo dei piccoli errori, eliminando dalla memoria collettiva il degrado morale, civile, politico e istituzionale cui è andata incontro l’Italia dal 1994 in poi.
A tal proposito, pur conoscendo le regole della realpolitik e pur sapendo bene che, nelle condizioni date, purtroppo non c’erano alternative alle larghe intese, ci teniamo a far sapere ai centouno volti ignoti che non ci dimenticheremo mai del loro tradimento e al Berlusconi gongolante di questi giorni che non smetteremo mai di ricordare agli italiani cos’ha rappresentato per il Paese la sua avventura politica: dal discredito internazionale allo spread a 575 punti nel novembre del 2011, dal conflitto d’interessi alla riforma Gelmini, senza dimenticare le battute fuori luogo, gli scandali di varia natura che l’hanno coinvolto, l’inadeguatezza del suo quarto governo nel fronteggiare la crisi, la negazione, finché gli è stato possibile, della crisi stessa, gli attacchi alla libertà d’informazione, il costante tentativo di isolare e dividere i sindacati, il Parlamento impegnato a tempo pieno ad occuparsi di Ruby mentre l’Italia andava sempre più a fondo e molte altre vicende sulle quali accenderemo, se possibile, qualche altro riflettore, considerando che si stanno progressivamente spegnendo quelli degli altri.
E nessuno, per favore, ci venga a tacciare di irresponsabilità solo perché ci ostiniamo a compiere una netta distinzione tra gli interessi reali della Nazione e quelli privati di Berlusconi: innanzitutto, perché, negli ultimi anni, l’aggettivo “responsabile” è stato abusato alla grande; in secondo luogo, perché ci si può chiedere di accettare una soluzione d’emergenza, per quanto durissima da mandar giù per i nostri lettori ed elettori, ma non ci si può e non ci si deve chiedere di travestire per l’ennesima volta il Cavaliere da padre costituente, salvo poi accorgersi, qualche mese dopo, che dei supremi interessi del Paese, in realtà, gliene importa poco o nulla.
In conclusione, sia chiaro che, se abbiamo accettato di sostenere un esecutivo che non finirà mai di destarci perplessità e preoccupazioni, nel nostro caso è solo ed esclusivamente perché riteniamo di non poter abbandonare a se stessi i ceti sociali più deboli, gli operai rimasti senza cassa integrazione in deroga, gli imprenditori sfibrati dalla crisi, gli esodati creati dalla riforma Fornero, i giovani in cerca di un lavoro, di una speranza, di un avvenire e di un minimo di fiducia in se stessi e, in generale, tutte le categorie che proprio il berlusconismo ha messo in ginocchio e che in campagna elettorale ci eravamo ripromessi di voler aiutare.
Sappiamo di avere davanti a noi un quadro di macerie simile a quello che conobbero i nostri nonni al termine della Seconda Guerra Mondiale (e non crediate che le macerie morali siano meno dolorose di quelle fisiche); sappiamo che Letta è una brava persona, un politico accorto ed un europeista convinto e che, pertanto, farà senz’altro del suo meglio per risollevare l’Italia dal baratro e provare ad avviare il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa e sappiamo anche che, perché produca qualche effetto tangibile, questo governo non può durare meno di un anno, un anno e mezzo.
Tuttavia, sappiamo pure di non poter tacere di fronte all’evidenza del fatto che due settimane fa, al momento dell’elezione del Capo dello Stato, di alternative migliori ce n’erano almeno due: Prodi e Rodotà, entrambi invisi al Cavaliere e, dunque, entrambi in grado di avviare quel processo di rinnovamento e cambiamento che evidentemente è inviso, e non poco, sia ai veri conservatori sia ai falsi progressisti. E sappiamo, in particolare, che tutto ci può essere chiesto, persino di supportare un esecutivo che vede Alfano ministro degli Interni e Miccichè sottosegretario alla Pubblica Amministrazione, ma non di scambiare una sofferta fiducia con un’intollerabile amnesia perché per noi la dignità viene prima di qualunque poltrona e di qualunque governo.