Che la navigazione di questo governo non sarebbe stata agevole era noto a tutti (Letta per primo) fin dall’inizio. Come era noto che ben presto avrebbe assunto le sembianze di una zattera nel bel mezzo di una tempesta omerica, travolta da onde alte metri e costretta a fare i conti con correnti d’ogni sorta.
Ciò che, invece, ci ha sinceramente sorpreso sono stati i continui tentativi di scaraventare in mare il nocchiero: un uomo mite, di solida tradizione democristiana e caratterialmente incline al dialogo e alla mediazione, al confronto aperto e al compromesso costruttivo. Una persona perbene, dunque, che si è caricata sulle spalle un onere gravoso e lo sta portando avanti con dignità, ribadendo quasi ogni giorno di essere pronta a fare fino in fondo la propria parte ma non a tutti i costi: non a costo di vivacchiare, non a costo di essere costantemente soggetta a ricatti e intimidazioni, non a costo di varare leggi vergogna e “ad personam”, non a costo di cedere al populismo più becero e dannoso, non a costo di far perdere ulteriore credibilità al Paese e non a costo, infine, di rinunciare ai propri sogni, ai propri ideali e alla propria visione della società e del mondo.
Perché Enrico Letta sa che in questi mesi si gioca tutto. Sa che, se dovesse riuscire nell’impresa di mettere in salvo le categorie sociali più deboli, rilanciare la crescita e lo sviluppo, contribuire ad invertire la rotta del Vecchio Continente e restituire sobrietà alla politica, passerebbe alla storia come uno dei padri della Patria. Ma sa anche molto bene che questi obiettivi sono assai difficili da raggiungere e che, se dovesse fallire, non solo l’Italia rischierebbe di ritrovarsi nelle pesti ma la sua carriera politica sarebbe pressoché finita e, per giunta, nel peggiore dei modi.
Per evitare tutto questo, però, Letta ha davanti a sé una sola strada: quella del coraggio e delle riforme, la più dura ma anche l’unica in grado di condurci fuori dal baratro. In poche parole, il suo governo non deve trasformarsi nel governo dei rimpianti e dei “però”, del “vorrei ma non posso” e del “potrei ma è meglio di no”, in nome di equilibri che non stanno né in cielo né in terra e, soprattutto, risulterebbero incomprensibili ad una popolazione sempre più in crisi, sempre più sfiduciata e sempre più terrorizzata dall’assenza di prospettive per il futuro.
Come disse una volta il grande Moni Ovadia a proposito del razzismo, bisogna stare molto attenti a coloro che asseriscono: “Io non sono razzista, però…” perché in quel “però” è racchiusa tutta la loro pochezza, tutta la loro crudeltà, tutta la loro misera ed insopportabile mancanza di civiltà e, naturalmente, tutto il loro profondo e disgustoso razzismo.
Senza contare che questo discorso torna molto utile quando si analizza la storia della sinistra negli ultimi vent’anni perché è vero che Berlusconi è quello che è, è vero che dispone di un impero mediatico di cui nessun altro competitore, in Italia e nel mondo, dispone ma è altrettanto vero che se sta ancora lì, nonostante tutti gli scandali e quasi dieci anni di mal governo, una parte della colpa è da attribuire anche ai nostri “però”, alla nostra assenza di coraggio, alle troppe volte che avremmo voluto comportarci in un modo ma poi ci siamo comportati in maniera esattamente opposta e, più che mai, ai nostri cedimenti di carattere ideologico, fino ad arrivare al punto di vantarci di non avere un’ideologia, come se avesse senso un partito o uno schieramento privo di una visione ideale del presente e del futuro.
A tal proposito, mi preme sottolineare che sbaglia, o forse è in malafede, chi sostiene che Berlusconi abbia vinto tre elezioni su cinque e di fatto pareggiato le ultime per mancanza di avversari perché non è così ed è un insulto inaccettabile nei confronti di una parte del Paese e di una classe dirigente che avrà pure mille difetti ma non quello di essere corriva nei confronti del berlusconismo.
Il nostro difetto, al contrario, è stato un altro, se vogliamo ancora più grave: quello di esserci costruiti attorno una gabbia che ci ha impedito di spiccare il volo, di valorizzare le nostre risorse migliori, di porre l’orecchio ben a terra per ascoltare le innumerevoli richieste che provenivano dalla società e, non ultimo, di non aver compreso e denunciato per tempo la dissoluzione verso cui ci stava conducendo questo dissennato modello di sviluppo e di non aver saputo fornire un modello di sviluppo radicalmente alternativo e in contrasto con la barbarie del liberismo tuttora imperante.
Per questo, chiediamo a Letta e a una parte dei suoi ministri di compiere un atto veramente rivoluzionario: smetterla di dire “però” e iniziare a dire convintamente “sì”, costi quel che costi, ponendo il tema cruciale dei diritti al centro della propria azione di governo.
Sappiamo fin da ora che qualcuno, nel leggere queste riflessioni, storcerà il naso, che i “benaltristi” di professione ci spiegheranno con dotti editoriali su questo o quel giornale terzista che “ben altri sono i problemi del Paese” e che coloro che tutto sommato si sono adattati a vivere in gabbia (ad esempio i centouno che hanno impallinato Prodi) tremeranno all’idea che il vento di cambiamento possa oltrepassare persino l’alto muro eretto dai “berluscones” che loro non sono mai stati capaci di abbattere.
Tuttavia, sappiamo anche che i nostri elettori, compresi coloro che alle recenti elezioni hanno virato verso il Movimento 5 Stelle, non ci chiedono altri “però” ma la massima chiarezza, un progetto concreto e convincente, la forza e il coraggio di spalancare porte e finestre e, mai come ora, la capacità di mettere in gioco noi stessi, le nostre poltrone e persino le nostre stesse carriere in nome di un ideale più nobile di vera democrazia e di uguaglianza nelle possibilità.
Perché non è vero che i diritti siano un argomento secondario, come non è vero che “ben altri siano i problemi”; al contrario, checché ne pensino, ne dicano e ne scrivano i suddetti “benaltristi”, il vero dramma dell’Italia è proprio l’assenza di diritti: quelli dei lavoratori, degli operai, dei precari, degli insegnanti, degli studenti, delle donne, delle coppie omosessuali, dei bambini nati nel nostro Paese da genitori stranieri, dei detenuti e mille altri esempi si potrebbero avanzare, visto che da vent’anni questo tema è stato rimosso o, comunque, considerato sempre con un certo fastidio.
E non è vero nemmeno che i diritti siano scissi dalle questioni economiche, come dimostra il boom dei diritti negli anni del boom economico e come dimostra, ancor più, la loro regressione in questa stagione di crisi e d’incertezza.
Per questo, da un esecutivo che può vantare ministre eccellenti come Josefa Idem, Cécile Kyenge e Maria Chiara Carrozza, ci aspettiamo che vari subito una legge sui matrimoni e sulle adozioni da parte delle coppie omosessuali, una legge sul Diritto di cittadinanza e una seria riforma della scuola e dell’università che smantelli da cima a fondo le precedenti riforme targate Gelmini e Profumo.
Per questo, pur essendo fortemente contrari (e a ragione) a ogni forma di accordo con questa destra, abbiamo deciso di accordare la nostra fiducia critica al governo.
Per questo, in conclusione, da un allievo di Beniamino Andreatta non possiamo che aspettarci che sia pienamente d’accordo con noi.