La sinistra riparte dal Nord-Est

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Premesso che il dato dell’astensione è allarmante in tutta Italia e più che mai a Roma, dove si è recato alle urne solo un elettore su due, sarebbe profondamente ingiusto asserire che a questo primo turno delle Amministrative hanno perso tutti. Di sicuro, e di questo va dato atto agli editorialisti più malevoli e corrosivi, ha perso la democrazia perché quando quattro elettori su dieci decidono di rimanere a casa, è evidente che non ce l’hanno con questo o quel candidato ma con l’intero sistema, con la sua inconcludenza e con la sua incapacità di riformarsi e fornire risposte concrete e convincenti a un Paese oramai ridotto allo stremo. Tuttavia, entrando nello specifico dei dati elettorali, va detto che c’è un vincitore inatteso (il PD e il centrosinistra), uno sconfitto inatteso ma non troppo (il PDL, che conferma di esistere e risultare credibile solo quando si presenta Berlusconi in prima persona) e, infine, un evidente sconfitto (il Movimento 5 Stelle di Grillo e Casaleggio che, con ogni probabilità, paga i suoi errori strategici, l’eccessiva leggerezza dei suoi candidati ma, soprattutto, il fatto di essersi presentato come un movimento quasi rivoluzionario e di essere risultato finora più inconcludente e avvezzo ai discorsi in politichese dei partiti che aveva promesso di distruggere).

A tal proposito, tralasciando per un momento le sorti dei due non partiti (PDL e Movimento 5 Stelle) che pure, per la bizzarria del contesto politico italiano, rappresentano quasi il sessanta per cento degli elettori e confinando la Lega nella sua modestissima condizione di partito in disarmo, è d’obbligo andare ad analizzare ciò che accade in casa democratica.

Nemmeno il più accanito sostenitore, infatti, si sarebbe mai immaginato che, dopo i disastri combinati negli ultimi mesi, il partito di Epifani potesse non solo affermarsi già al primo turno in città da sempre ostiche come Vicenza ma addirittura presentarsi al secondo turno in vantaggio in quella Treviso roccaforte del leghismo dove, fino a pochi anni fa, Gentilini era considerato un’istituzione e il centrosinistra, per usare un termine calcistico, non toccava palla.

Com’è potuto accadere, dunque, che il partito più in difficoltà non solo sia riuscito a rialzare la testa ma sia andato ben al di là delle più rosee aspettative dei suoi militanti? Una risposta interessante in merito l’ha fornita Marco Damilano sul sito dell’Espresso, in un editoriale intitolato “Sì, ma ha vinto ‘l’altro’ PD”: “Nel PD c’è ormai una doppia nomenclatura: quella di largo del Nazareno, che monopolizza le direzioni e le assemblee, che organizza le conte sui segretari da innalzare e da abbattere, che ha nominato i gruppi parlamentari. E i newcomers, gli eletti nelle città e nelle regioni, che non sono più i Bassolino, Rutelli, Veltroni, Enzo Bianco, pesi massimi nei loro partiti, ma atipici e irregolari come Serracchiani, Doria, Pisapia, Emiliano, ora Marino”. Per correttezza, bisogna riconoscere che né Doria né Pisapia fanno parte del PD e che alle Primarie, vinte rispettivamente a Genova e a Milano, furono sostenuti entrambi da Vendola. Detto questo, il senso dell’analisi è molto chiaro e condivisibile: esistono due PD, uno in grado di vincere e convincere perché chiaro, limpido, concreto e ricco di idee e proposte innovative e l’altro, destinato a perdere in eterno, persino contro due non partiti quali quelli visti in precedenza, perché chiuso, autoreferenziale, povero di idee e incomprensibile persino agli occhi di una parte dei suoi dirigenti, figurarsi per un elettorato mobile e diffidente come quello che si è venuto a creare negli ultimi anni.

Sarebbe, però, un’analisi incompleta se ad essa non aggiungessimo un fattore fondamentale per avere successo in politica: il coraggio. Il PD vince solo ed esclusivamente dove ha il coraggio di osare e di essere se stesso; vince dove ha il coraggio di presentare una classe dirigente giovane e preparata (al netto di quell’assurdo concetto della “rottamazione” che, finalmente, non va più di moda nemmeno dalle parti del suo primo artefice); vince dove ha il coraggio di difendere i diritti e sfidare la destra sul tema dei valori e vince, in conclusione, dove ha il coraggio di accompagnare gentilmente alla porta i “benaltristi”, i disfattisti e tutti coloro che per due decenni ci hanno raccontato la favola dell’invincibilità del berlu-leghismo nel Nord-Est.

Ve li ricordate? Ve li ricordate quei sedicenti esponenti del centrosinistra che plaudivano alle ronde e mitizzavano il federalismo “perché questi sono i messaggi che vuole sentirsi ripetere la gente di qui”? Ve li ricordate gli arresi in partenza che ci scongiuravano di non dir nulla contro la vergogna dei figli degli immigrati tenuti a pane e acqua nelle mense scolastiche solo perché i genitori non potevano permettersi di pagare la retta mensile o contro la follia del tetto del trenta per cento di alunni stranieri per classe “perché da quelle parti non è il caso di parlare di integrazione e diritto di cittadinanza”? E ve li ricordate i cialtroni che ci attaccavano quando facevamo presente a due noti galantuomini quali l’allora sindaco di Treviso Gentilini e il prode europarlamentare Borghezio che non ci spaventano affatto le moschee e i kebab quanto, più che mai, il razzismo e l’intolleranza? Ebbene, in molti casi, sono gli stessi che da settimane, all’insegna della coerenza e della lungimiranza, non fanno altro che incensare la ministra Kyenge, dopo aver miseramente taciuto per anni di fronte ad affermazioni intollerabili e dopo aver derubricato a folklore ogni sparata dei “celoduristi” padani, persino quando a pronunciarle erano esponenti del governo.

Stavolta, invece, tanto per citare una realtà che mi sta particolarmente a cuore, è accaduto che a Vicenza il sindaco Variati non abbia avuto paura di farsi trascinare dall’entusiasmo di un gruppo di giovani che, mentre a Roma il partito dava il peggio di sé, occupava la sede e chiedeva che venisse eletto al Colle uno fra Prodi e Rodotà; che considera lo Ius soli un princìpio di democrazia e di civiltà; che sui diritti non è disposto a cedere ai ricatti e ai nocivi equilibrismi dei “benaltristi” di professione; che sulla scuola non ha remore a chiedere lo smantellamento immediato delle riforme Gelmini e Profumo e che non ha alcun timore nel manifestare il proprio entusiasmo e la propria passione civile nella stagione della disillusione e del disincanto collettivo.

Non a caso, sempre in questi giorni, abbiamo assistito alla vittoria dei ragazzi dell’UDU e delle liste di sinistra in quasi tutte le università italiane, a cominciare proprio dal collegio del Nord-Est, a dimostrazione che basta un programma puntuale e una visione aperta della società e del futuro per mandare a casa una destra che, con le sue riforme basate unicamente sui tagli lineari di Tremonti, ha ipotecato l’avvenire di almeno tre generazioni.

E non a caso, a dispetto dei disastri romani, Debora Serracchiani ha vinto, sia pur di misura, in Friuli, smentendo sul campo le dotte analisi dei geni purtroppo compresi che tanto male hanno arrecato alla sinistra, i quali non facevano altro che schernirla perché “tanto il Friuli è di destra e lei è destinata ad andare incontro a una sicura sconfitta”. Si è visto.

Il che dimostra, in poche parole, che il berlu-leghismo non solo non è invincibile ma è di fatto derelitto in tutta Italia, a cominciare dai suoi feudi cui aveva promesso ricchezza e benessere e che oggi, al contrario, stanno sprofondando sotto i colpi della crisi.

Per questo, ora più che mai, la sinistra deve riscoprire il gusto, la gioia e l’audacia di osare: perché la nostra riscossa potrebbe partire proprio da quelle zone del Paese nelle quali per troppo tempo abbiamo perso perché ci siamo rassegnati a perdere, senza accorgerci che sarebbe bastato cambiare noi stessi per rispondere al desiderio di cambiamento di gente da sempre abituata a rimboccarsi le maniche, ad andare avanti e a immaginare un domani diverso e migliore.


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