La celebre fotografia, scattata per Vogue nel 1981 “Les Nus et le Vetus”, in duplice versione, in cui le quattro modelle avanzano verso gli spettatori come moderne valchirie wagneriane, prima svestite, ondeggiando sui tacchi a spillo, poi indossando con nonchalance morbidi abiti YSL, è emblematica dello stile e del sentire artistico del grande fotografo di origine tedesca Helmut Newton. Di come il suo occhio irriverente da “voyeur professionista” ha riscritto i vecchi codici estetici imbalsamati, rivoluzionando la foto di moda negli anni’70. Non più un sogno da vendere, impresso sulle pagine patinate delle più importanti riviste di settore, ma fantasie da rielaborare, sulle quali imbastire sogni in libertà. “Una buona immagine di moda”, sosteneva, “non deve assomigliare ad un ritratto, ad un cliché di paparazzi, ad un souvenir, deve avere un tocco di volgarità, che la renda più eccitante del cosiddetto buongusto che altro non è che la normalizzazione dello sguardo. La moda, per me, non è un’illustrazione, ma un’idea da mettere in scena”.
Il suo è un mondo totalmente liberato dalle convenzioni moraleggianti, dai conformismi e dalle ipocrisie e, nello stesso tempo, è pieno di ambiguità e di complessità esistenziali; dominato dal fascino per la bellezza, attratto dal potere della seduzione femminile, fonti inesauribili per il suo processo creativo e il suo immaginario erotico, come filtro di elaborazione per coniare un linguaggio fotografico fantastico, che attinge al reale.
E’ un universo popolato di riferimenti che spaziano dalla storia della pittura alla cinematografia, alle suggestioni letterarie, così da ricreare in alcuni celebri scatti il senso di un racconto che va ben oltre l’istante fotografico.
“Io sono una persona molto pura”, diceva di sé, quasi sussurrando con voce gentile, respingendo le accuse delle femministe tedesche che di fronte alle immagini più audaci lo accusavano di pornografia. “Quello che è impresso nel negativo è solo ciò che è presente nella realtà. Il vero erotismo per me è il contrario del nudo integrale; non è espresso dal sesso, ma dal viso”. La mostra “Helmut Newton-White Women-Sleepless Nights-Big Nudes”, allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma (fino al 21 luglio), è una buona occasione per ammirare la sua opera attraverso una selezione di oltre 200 scatti, tratti dai suoi primi tre libri fotografici e sgombrare così la sua arte dai tanti luoghi comuni che l’hanno accompagnata. E’ il “fascino segreto della borghesia” ad occupare la scena, così come lui l’ha catturata e ritratta col suo obiettivo, senza veli, rivelandone i desideri e le pulsioni più segrete, gli angoli più nascosti, sottraendola a inutili pudori, adornandola di sottile, raffinata ironia. ”Sempre coerente con la mia cattiva reputazione, senza la pretesa di nascondermi dietro spiegazioni complicate. Io non ho mai raccontato la società nel suo insieme, ma solo il mondo dei ricchi e le loro relazioni”. Col distacco di un osservatore disincantato che ne registra anche la caducità.
Una sincerità disarmante che ci permette di mettere a fuoco un aspetto della sua personalità e della sua biografia, costellata di capitoli intricati come un romanzo, mentre osserviamo la straordinaria forza espressiva e stilistica delle sue foto che il passare del tempo ha reso ancora più belle. Lo scandalo c’è solo negli occhi di chi lo vuole vedere, di chi non riesce a comprendere che le parole e le forme di espressione di un artista, se sincere, mostrano verità nascoste e scomode. I suoi nudi femminili, abitati da sguardi indiscreti, non sono mai sottomessi però da una dominatrice visione maschile, non sono oggetti mortificati, passivi,ma soggetti dominanti,che la sua perfezione artistica riveste di un’aurea estetizzante. Davanti ai suoi bianco/neri contrastati, scolpiti dal gioco sapiente delle luci, si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di una scenografia viscontiana, dove ogni dettaglio è studiato alla perfezione e nulla è superfluo.
E’ la sua cultura di uomo del Novecento, figlio dell’alta borghesia ebraica tedesca (Helmut Neustadter era nato nel1920 aBerlino), cresciuto fra sollecitazioni letterarie, avanguardie artistiche e reminescenze ottocentesche, ad affiorare fra le righe delle sue eleganti composizioni. Radici ed identità che si spezzarono definitivamente nell’inverno del ’38 per sfuggire alla razzia nazista, lasciandosi alle spalle il ricordo di Berlino, luogo dell’anima e di sogni perduti, la dolcezza di sua madre e le tinte pastello dei suoi abiti di satin. Poi la fuga in Australia, l’incontro con June (futura Alice Spring), la passione per la fotografia noire e metropolitana di Weegee, il ritorno in Europa e la consacrazione a Parigi.
La luce cruda, la composizione elaborata, i forti contrasti in perfetto equilibrio fra di loro, la messa a fuoco dei particolari dal forte potere evocativo e simbolico a caratterizzano il suo stile, che negli anni andrà sempre più levigandosi, mantenendo la sua scrittura inconfondibile e inimitabile. I sentimenti restano esclusi dal campo visivo. Una freddezza cercata che non impedisce l’emozione; la tensione e la voluttà scorrono fluide come sequenze cinematografiche dal finale aperto. I vicoli deserti rischiarati dai pallidi lampioni fanno da cornice ai giochi di ruolo delle mannequin di Saint Laurent, in abiti scollati e smoking nero, simbolo di emancipazione e manifesto di un’epoca: come la pubblicità hard di Hermés, con una sella posata sulla schiena della modella inginocchiata sul letto.
Spregiudicatezza e sfida alle convenzioni; gusto per l’estremo, come fattore di vitalità.
L’eterno gioco delle apparenze e delle scomposizioni scolpite dalla luce nei suoi nudi anni ’80, ci fanno pensare alla “Venere allo Specchio” di Velasquez. La naturalezza delle pose colte nell’intimità, ai disegni di Degas. I suoi ritratti di donne languide, inquiete, misteriose, abbandonate fra i cuscini di saloni dai toni ovattati, rievocano la pittura concreta e sublime di Manet. Specchiere e lampadari sono determinanti per definire le proporzioni dello spazio e colmano di ossessioni e di significato gli angoli vuoti. ”Mi piacciono i lampadari che vengono fuori dalla testa delle persone. Li trovo divertenti. Io non penso mai al gioco grafico o se ci penso è per evitarlo”. Le sue donne, prive di tabù e padrone del proprio corpo, davanti al suo obiettivo scoprono le pieghe del loro animo, le fragilità e le zone d’ombra. Catherine Deneuve è un’eterna, disarmante, ”Belle de Jour”. Charlotte Rampling un’enigmatica femme fatale. Madonna una rockstar travestita da “Angelo azzurro”. Natassja Kinskj è una creatura misteriosa, sofisticata, che gioca con l’ambiguità e sorprende con una femminilità intrisa di dolcezza. June, inseparabile compagna di lavoro e di vita, la sigaretta tra le labbra, il vestito scostato sul seno, accende un fiammifero nella notte, appagata dopo una cena appena consumata. Il suo autoritratto del ’81, con l’impermeabile sgualcito e le sneakers ai piedi, è un cammeo incastonato e riflesso nello specchio dentro lo studio di Vogue in Place du Palais-Bourbon. “Tutto quello che si vede fa parte della mia vita: la mia macchina fotografica, la mia modella di nudo preferita, mia moglie June che osserva divertita. Questa è una foto autobiografica. E’ un buon esercizio. Ogni foto lo è”.