La più grande base britannica in Afghanistan nascondeva una novantina di sospetti trattenuti in detenzione arbitraria da oltre un anno.
Articolo di: Emanuele Giordana – Lettera22
La più grande base britannica in Afghanistan nascondeva una novantina di sospetti trattenuti in detenzione arbitraria da oltre un anno. A darne notizia è stata la Bbc sulla base dei documenti preparati dagli avvocati inglesi di otto di questi clandestini afgani, trattenuti per mesi illegalmente, che hanno presentato denuncia il 18 aprile scorso a un tribunale del Regno unito.
Con quindici chilometri quadrati di estensione Camp Bastion è il più grande campo militare britannico d’oltremare costruito dopo la seconda guerra mondiale e la principale base militare dell’Union Jack in Afghanistan. Distante da luoghi abitati, a diversi chilometri dalla capitale dell’Helmand Lashkar Gah, non nasconde alla vista solo i suoi 30mila soldati. Il perimetro del suo enorme Pentagono nasconde anche una piccola Guantanamo con una novantina di sospetti trattenuti in detenzione arbitraria da oltre un anno. A darne notizia è stata ieri la Bbc sulla base dei documenti preparati dagli avvocati inglesi di otto di questi clandestini afgani, trattenuti per mesi illegalmente, che hanno presentato denuncia il 18 aprile scorso a un tribunale del Regno unito. I magistrati dovrebbero prendere in esame l’oscura vicenda entro la fine di luglio.
Opacità britannica
Davanti alle prove esibite dall’emittente e ancor prima che il tribunale si sia pronunciato, il ministero della Difesa ha ammesso la detenzione di 80-90 afgani che non sarebbero stati consegnati all’autorità giudiziaria locale per timore che non venissero loro applicate le regole di un giusto processo. Risposta che ha qualcosa di vagamente ridicolo dal momento che i padrini del diritto anglosassone avrebbe detenuto gli afgani (di cui con opacità non è stato chiarito nemmeno l’esatto numero) in condizioni che il ministero della Difesa afgano (sapeva?) ha definito “inumane”. Il titolare dell’omologo dicastero britannico Philip Hammond, che ha difeso la privazione della loro libertà perché la liberazione dei detenuti sarebbe stata un rischio per le truppe del Regno unito, ha fatto però sapere che quanto prima i detenuti passeranno in mani afgane. Quando? Non si sa.
Condizioni inumane o meno, quel che è certo è che le più elementari norme di legge sono state violate. I militari di Isaf, la forza multinazionale della Nato a cui il Regno unito contribuisce numericamente con il secondo contingente per quantità dopo gli Stati uniti, possono trattenere un sospetto, quale che sia l’accusa, per un massimo di 96 ore, non certo per dieci mesi; solo in “eccezionali circostanze” la loro detenzione può essere estesa. Dal novembre 2012 il Regno unito ha però deciso di impedire il trasferimento dei detenuti in mano afgana per timore di “abusi” afgani, ma le carte all’esame dei giudici parlano di abusi britannici evidentissimi commessi su alcuni di loro: è il caso ad esempio di un ragazzo di soli 14 anni e di un padre che ne ha venti, entrambi arrestati durante un raid nell’Helmand. Né il minorenne né il maggiorenne hanno avuto assistenza legale. Altri l’hanno ricevuta, ma hanno potuto parlare con gli avvocati solo dopo molti mesi dal loro arresto e dall’interrogatorio militare e ancora non sanno di cosa sono accusati. I famigliari sono riusciti solo attraverso la Croce rossa a sapere che fine avevano fatto i loro parenti.
Opacità americana
Paladini del rule of law, i britannici non si distinguono molto dunque dai loro cugini americani che avevano promesso la chiusura di Guantanamo senza mai arrivare a definirla (nonostante i continui scioperi della fame dei detenuti) ma che almeno hanno consegnato alla giustizia afgana, dopo un’estenuante trattativa, praticamente tutti i detenuti del nuovo carcere costruito a fianco della base militare di Bagram. Va ricordato che lo scambio dei detenuti è stato uno degli argomenti per un altro scambio: l’apertura del governo Karzai al mantenimento della basi americane in territorio afgano dopo il 2014
Opacità italiana
C’è anche un’opacità italiana. Non riguarda detenuti ma quanto ci viene raccontato della guerra afgana: contraddicendo la prima versione ufficiale, il ministro della Difesa Mauro ha ammesso martedì che era un kamikaze e non un’autobomba il responsabile dell’attacco di lunedì in Afghanistan a un mezzo blindato nel quale sono stati feriti nella collisione due bersaglieri. O il ministro non era stato ben informato o ha coperto un’informazione reticente. Difficile sbagliarsi infatti se, come ha detto Mauro, l’auto talebana si è lanciata contro il convoglio e non è esplosa, come sembrava all’inizio, al passaggio del Lince.
Assalto all’Icrc
Un gruppo di diversi attentatori suicidi ha attaccato ieri nel tardo pomeriggio l’ufficio del Comitato internazionale della Croce rossa (Icrc) nella capitale della provincia orientale di Nangarhar uccidendo almeno un funzionario della Ong svizzera. Insolito l’orario (le sei di sera) insolito l’attacco a un’istituzione riconosciuta per la serietà, specie in Afghanistan, e la terziarietà del suo operato svolto in favore delle vittime di guerra e per assicurare il rispetto dei diritti dei carcerati nelle prigioni afgane e internazionali. Un uomo si è fatto saltare sulla porta dell’ufficio di Jalalabad, città alla frontiera col Pakistan, uccidendo nell’esplosione una delle guardie di sicurezza mentre anche il capo dell’Icrc nella provincia, Anis Baburi è stato ferito. Poi alcuni guerriglieri sono entrati negli uffici. La battaglia attorno all’edifico è durata tre ore. Nell’edifico c’erano tre stranieri che lavorano per l’istituzione svizzera che in seguito sono stati evacuati. La vittima è un vecchio funzionario della Icrc.
Il Comitato internazionale spende ogni anno in Afghanistan circa 90 milioni. Ha 1800 persone nel suo staff (in gran parte locale) e, pur essendo nota per l’attiva ortopedica, le cure e la fabbricazione di protesi, svolge un lavoro fondamentale nelle carceri dove assiste anche uomini della guerriglia talebana.