La trascrizione dei passaggi principali della lezione del presidente del Senato Pietro Grasso il 6 maggio 2013 agli studenti della LUSPIO
ROMA – Il coraggio quotidiano, silenzioso, la testimonianza muta delle azioni necessarie sono nemici feroci della mafia tanto quanto lo sono le indispensabili azioni repressive della polizia e della magistratura. Pensate a figure come quella di Giancarlo Sian,i ma anche di padre Pino Puglisi o di Libero Grassi, che hanno assunto un valore enorme ed assoluto. I loro fantasmi agitano i sonni dei mafiosi più del rigore del carcere duro, perché la mafia, in quanto organizzazione a carattere totalitario, teme moltissimo la parola. La mafia ha bisogno del rispetto, della considerazione sociale, teme il discredito che viene dalla parola.
È triste ammetterlo, ma in Italia ci sono regioni in cui il giornalista che descrive senza veli la realtà del potere rischia la vita. Non dico soltanto quando descrive la mafia, ma il potere, perché spesso i maggiori rischi li corre chi descrive il potere, quel connubio fra mafia, economia e politica che spesso rappresenta, in tante regioni il potere.
Ci sono regioni in cui si combatte una battaglia quotidiana fra la passione, il dovere dell’informazione e la pretesa del silenzio che si esprime con violenza, intimidazioni, minacce di morte che si materializzano in pallottole ricevute per posta o pallottole che frantumano i vetri delle finestre o colpiscono le porte delle abitazioni, o lettere minatorie, copertoni di auto squarciati, automobili date alle fiamme… Tanti sono i modi e tanti i giornalisti costretti a vivere sotto tutela, come Lirio Abbate, che è oggi insieme a noi, come Giovanni Tizian, Roberto Saviano e tanti altri.
Esistono meritorie associazioni che monitorano e difendono il diritto alla libertà di espressione e anche il diritto alla sicurezza degli operatori dell’informazione. Tra esse l’Associazione Stampa Romana, Articolo 21 e Ossigeno per l’Informazione la cui azione vi sarà illustrata da chi la dirige e che ogni anno stila un rapporto su tutte le minacce rivolte ai giornalisti. Il lavoro di questi coraggiosi è assolutamente indispensabile e meraviglioso.
La mafia pretende il silenzio e mal digerisce i giornalisti scomodi. Cosimo Cristina, ad esempio è il primo dei nove giornalisti uccisi in Sicilia. Non aveva ancora compiuto 25 anni quando fu ucciso a Termini Imerese il 5 maggio 1960. Lo fecero trovare morto sulla ferrovia, come Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978. Dopo Cosimo Cristina, nel 1970 toccò a Mauro De Mauro, due anni dopo a Giovanni Spampinato, poi nel 1979 a Mario Francese, nel 1984 a Giuseppe Fava, nel 1988 a Mauro Rostagno e cinque anni dopo, nel 1993, a Beppe Alfano. In Campania è stato ucciso nel 1985 Giancarlo Siani.
È una componente comune a tutte queste storie che, dopo la morte, si sia messa in moto la macchina del fango per screditare ciò che avevano detto o avevano scritto, con l’immancabile corollario di depistaggi. Alcuni di loro sono stati “suicidati” e solo dopo decenni sono state accertate alcune responsabilità, mentre per altre vittime non si conoscono ancora né gli esecutori né i mandanti.
Scriveva nel 1981 sul “Giornale del Sud” Giuseppe Fava una frase bellissima che mi ha sempre entusiasmato: “Un giornalismo fatto di verità (…) impone ai politici il buon governo. (…) Un giornalista incapace (…) della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere”.
Ma la stampa ha un altro più poderoso potere: quello di rispondere con la cultura al fascino che i mafiosi esercitano sul’ambiente loro circostante. I giovani sono influenzabili, suggestionabili. Bisogna far conoscer ad essi che i mafiosi non sono quegli eroi che a volte possono apparire nelle rappresentazioni delle fiction, dei film e di altre forme narrative.
Nel corso di indagini su una banda di minorenni operanti a Milano addosso al capobanda diciassettenne fu trovato un ritaglio di giornale che appunto descriveva la fiction del capo dei capi e inneggiava con un sapore mitico a Totò Riina.
Questo ci deve fare riflettere sul ruolo dell’informazione in questo campo. I mafiosi non sono certamente eroi. Sono criminali feroci che avvelenano il territorio, che umiliano padri di famiglia con l’usura, con lavoro sottopagato, ma richiedono una fedeltà e una lealtà presunta che immolano l’innocenza delle nostre coscienze. Raccontare la mafia, la criminalità organizzata significa metterli a nudo, smascherarli per quello che sono: piccoli uomini che nascondono la loro incapacità di vivere con l’uso della violenza e della paura.
È con gratitudine quindi che guardo ai giornalisti più attenti, quelli che descrivono questi fenomeni. I piace questa curiosità investigativa quando è rivolta ad aiutare le investigazioni che fa la magistratura e la polizia giudiziaria e non quando indagano su ciò che fanno i magistrati e questo dà luogo a fughe di notizie che possono danneggiare le indagini stesse. Mi è sempre piaciuto sapere che tanti con coraggio e spirito di servizio cercano, scavano. Ho esempi concreti di giornalisti che scavando, cercando anche fra carte che la magistratura non aveva più sottomano, hanno fornito elementi che hanno aiutato le indagini. (…)
COME PARLARE DELLA MAFIA – Non sono fra coloro che pensano che di queste cose non bisogna parlare perché facendolo si discredita l’Italia. Penso invece che se ne debba parlare il più possibile, perché tacere la realtà equivale oggi ad essere complici e questo non possiamo accettarlo. Il problema è come parlarne. C’è un fascino connaturato del male, connaturato con l’uomo. La virtù non attira. Il male attira molto di più. C’è sempre una attrazione psicologica verso il proibito, verso il male, verso quella che puè essere l’immagine travisata del successo, verso la vita facile, il denaro, una vita fatta di champagne, donne, piscine, crociere, tutto il contorno di una vita vissuta con allegria e con grosse, grosse potenzialità economiche. Questa è la visione che puè essere data in un particolare momento della vita di un mafioso o di un uomo di potere, perché adesso io cerco di avvicinare sempre di più l’idea della mafia al potere.
Spesso non sappiamo quanto ciò che vediamo sia solo mafia militare o sia mafia collegata con politica, con corruzione. Sempre più c’è questa forma di identificazione, magari nascosta. La mafia come violenza ed intimidazione è immediatamente percepibile. Il problema è quando cadono completamente le statistiche sulla violenza mafiosa e sembra quasi che la mafia non esista più, mentre il tessuto si espande sempre di più non solo al Sud ma anche al Nord, come abbiamo visto da recenti indagini.
Quindi il problema è di come rappresentarla. Io dico di rappresentarla così come appare però cercando di mettere in guardia. Perciò, dopo la fiction sul capo dei capi mi sarebbe piaciuto che qualcuno facesse vedere dov’è finito il capo dei capi: all’ergastolo, in un carcere; che illustrasse per quanti di quei mafiosi quel successo è finito nel sangue, con la loro uccisione per contrasti interni, per conflitti a fuoco, o nella detenzione in carcere; che si dicesse in quanti lutti, in quanto sangue è finito quel successo che, quindi, non può essere un ideale di vita che un giovane immagina di poter scegliere. Eppure oggi in certe periferie parecchi giovani hanno abbandonato gli studi, non lavorano, stanno davanti a una sala giochi aspettando che il mafioso di turno li possa chiamare per un lavoretto per cominciare un’escalation criminale che comincia con piccoli furti, per passare alle intimidazioni alla raccolta per il racket delle estorsioni fino ad arrivare agli omicidi. Allora dobbiamo mettere sull’avviso questi giovani attraverso l’informazione e politiche per i giovani.
Questo è il discorso che bisogna fare. Lottare la mafia non significa solo mettere in carcere ma cercare di capirne le cause sociali economiche politiche e prevenire tutto questo. All’estero non ho avuto paura di rappresentare la realtà in quanto portatore di una azione antimafia che ha sempre ottenuto apprezzamento. Il nostro è il sistema più evoluto di lotta alla mafia, quello anche in altri paesi si cerca di applicare.
Questa è la realtà che dobbiamo rappresentare della mafia e della lotta antimafia, delle ricette che siamo riusciti a creare anche attraverso (il lavoro) dei giornalisti che hanno scritto cos’è la mafia e di quelli che hanno dato la loro vita per raccontare la verità, la realtà della mafia.