Era il 2007 quando Giovanna Reggiani fu sequestrata, stuprata e uccisa. Un femminicidio che allora non veniva ancora chiamato così perché non si usava, perché anche se le donne morivano già, era una parola che non circolava da queste parti. Ma quella morte, e quello stupro di una donna che tornava a casa dopo una giornata di lavoro, fu emblematico in questo nostro Paese. Quel femminicidio fu preso e cavalcato con azioni non certo rivolte al contrasto alla violenza sulle donne, ma fu usato e strumentalizzato per mandare fuori dall’Italia quegli stranieri che usurpano la nostra bella terra e ci rubano il lavoro. L’autore di quel reato era un rumeno e così, sull’onda dell’indignazione, due giorni dopo fu approvato un decreto legge, il 181/2007, ovvero “Disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica sicurezza”, cioè l’espulsione degli extracomunari, perché era colpa loro se le donne venivano stuprate e uccise: “vengono nel nostro Paese, ci rubano il lavoro e le donne, e poi vogliono anche fare i padroni”. Un concetto che andò talmente in fondo alle coscienze, che la percezione dell’immigrato fu completamente stravolta, fino a sentire la presenza “straniera” in maniera abnorme rispetto alla reale presenza: un numero di immigrati, quelli in Italia, che facevano ridere al confronto con paesi come la Francia, Gran Bretagna, Germania. Dopo due mesi la norma decadde ma il lavoro continuò e quando il governo Berlusconi approvò il pacchetto sicurezza nel 2008, tutti erano soddisfatti, e a nessuno, tanto meno ai mass media più “importanti”, sembrò importante far notare che in realtà la violenza contro le donne era nella maggior parte fatta da italiani e nelle loro case: come invece la ricerca Istat del 2006, pubblicata proprio nel 2007, aveva ben messo in luce con dati alla mano.
Oggi le cose sembrano cambiate: si parla di femminicidio, le associazioni delle donne fanno convenzioni, tavoli, convegni, alcuni giornali (tipo questo) hanno avviato un serio lavoro su come l’informazione deve trattare l’argomento, si fanno appelli, petizioni, si scrivono libri, si producono piéce teatrali, talmente tanto che qualcuno si è accorto che, anche se ne sa poco o niente, parlare di femminicidio può essere un’opportunità per mettersi sotto un bel riflettore: non fosse mai che ne viene fuori qualcosa in più. A questo si aggiunga che nel frattempo un governo, quello “tecnico” di Monti che non ha mai dato una risposta seria alla violenza contro le donne, non c’è più e che al suo posto, malgrado legittime elezioni, è stata messa in piedi una traballante alleanza tra i rottami di una destra arrogante e securitaria, e un “centro-sinistra” incerto, debole, ma furbo: insomma tra un Pd e un Pdl, che (in teoria) dovrebbero avere idee diverse in proposito.
Eppure gli accordi si fanno su tutto, perché non sul femminicidio? Una domanda a cui le donne, se ci tengono alla loro pelle, devono rispondere nette: perché no. E vediamo perché.
La ministra delle pari opportunità, Josefa Idem, ha parlato di una task force intergovernativa, e cioè un’azione traversale tra diversi ministeri (cosa che Fornero non ha mai fatto), e che potrebbe dare una reale svolta con un indirizzo preciso all’esecutivo, ma solo se i diversi ministeri hanno chiaro qual è l’obiettivo: protezione, prevenzione e, solo alla fine, punizione. A lei era preceduta 10 giorni fa alla Casa Internazionale delle donne di Roma (e non a Ostia o da qualche altra parte come qualche giornale ha scritto), la presidente della Camera, Laura Boldrini, che oltre a spingere per la ratifica della Convenzione di Istanbul, aveva accolto l’ottima idea di una commissione d’inchiesta sulla violenza di genere, lanciando anche a una “campagna di ascolto” in parlamento con la partecipazione della società civile: due donne delle istituzioni che sembrano aver capito i termini della questione, e cioè che non si possono aspettare i tempi biblici di una legge contro il femminicidio, e che bisogna agire con un’azione trasversale e concreta, andando a fondo con una commissione d’inchiesta per capire bene cos’è che non funziona e cosa cambiare in profondità. Un’ipotesi rafforzata da una lettera al presidente del senato, Pietro Grasso, firmata da alcun* senatori e senatrici, tra cui la viocepresidente Valeria Fedeli, dove si chiede un impegno reale affinché “venga al più presto, da un lato, ratificata la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta ad Istanbul l’ll maggio 2011”, e dall’altro, “venga costituita una commissione parlamentare di inchiesta che delinei il fenomeno del femminicidio, fornendo analisi, interpretazioni e adeguate soluzioni”.
D’altra parte il ministro degli interni, Angelino Alfano, si è subito reso disponibile per creare questa una task force, affermando di voler creare un gruppo che si occupi della questione che sarà alla base della discussione del prossimo consiglio dei ministri. Sì, ma in che modo? Con quale gruppo?
Oggi la ministra Idem ha scritto: “Ci vuole una risposta forte al femminicidio: mettiamoci tutti intorno ad un tavolo e facciamo squadra per raggiungere l’obiettivo, secondo un metodo che ho portato dallo sport. Tante volte anche nello sport vengono messe insieme risorse umane che non si trovano d’accordo ma che condividono l’obiettivo e quindi mettono da parte contrasti e vedute diverse”. Va bene, ma bisogna avere chiaro il problema per avere chiarezza di obiettivi, perché non è solo un problema di percorsi, e l’idea che Alfano ha su come risolvere il femminicidio, non credo coincida proprio con quella avanzata né da Idem né da Boldrini. Oggi la ministra alla giustizia, Anna Maria Cancellieri, ha parlato di azioni volte a intervenire sulla violenza solo in termini di pene e controllo, quando ancora bisogna risolvere il problema che le donne nelle aule dei tribunali non vengono né ascoltate né tutelatea, e se denuciano violenze in famiglia rischiano anche di perdere i propri figli. Le proposte fatte da Cancellieri di mettere il braccialetto elettronico agli stalker o di esigere l’arresto obbligatorio anche quando non viene presentata una denuncia da parte della vittima che invece è libera di scegliere, non solo non risolvono nulla ma potrebbero anche peggiorare la situazione. Proposte che , in accordo con Alfano, la ministra porterà al prossimo Consiglio dei Ministri.
La cosa che mi preme dire è che oggi la società civile, le associazioni di donne che lavorano sulla violenza, hanno trovato alcune interlocutrici importanti all’interno di questa compagine istituzionale, e quello che spetta a noi adesso non è gridare al governo per indire degli Stati generali sulla violenza, che eventualmente toccherebbe alla socità civile e non al governo, ma vigilare attentamente su come questo governo si muoverà. Fare una petizione, come quella indetta dal progetto teatrale di Serena Dandini, “Ferite a morte”, non ha nessun senso in questo momento, perché è come gridare “a lupo! a lupo!” quando il tempo è scaduto, e l’effetto è peggiore perché c’è già chi è pronto a cavalcare il grido di allarme e di emergenza, strumentalizzando ancora una volta la violenza che si consuma sulla pelle delle donne. Ora le associazioni delle donne, e cioè chi sa cos’è la violenza sulle donne, chi ci lavora e non chi ha fatto un ripasso in tre mesi, deve monitorare scrupolosamente su come ora questo governo, che si è pronunciato pubblicamente, intende affrontare il problema, chiedendo una interlocuzione e una consultazione diretta, ed eventualmente dopo gridare: No! così non va!
Ieri sul Tg1 ha già fatto capolino uno di quei servizi pericolosi e fuorvianti sul femminicidio, dove si insisteva tanto sulla pena, e in cui l’attrice Sonia Bergamasco (un’attrice appunto) parlava di violenza contro le donne come di “una terribile emergenza” senza sapere che invece la violenza in Italia è un problema strutturale, come ha fatto notare più volte “DiRe” (la Rete nazionale dei centri antiviolenza), e che per questo il femminicidio non va affrontato come un’emergenza (come invece vorrebbe la destra piddiellina). Così come, al punto in cui siamo arrivate, è superfluo (e forse anche pericoloso) chiedere al governo di indire gli “Stati generali sulla violenza” che in realtà, come si legge anche semplicemente su wikipedia, sono storicamente “un organo di rappresentanza dei tre ceti sociali” (quindi della società civile e non del governo) e che “si riuniscono quando incombono sul paese pericoli imminenti”. Ma se intendiamo la violenza di genere come “pericolo incombente” significa che non abbiamo capito nulla, e che forse è meglio tacere. Il pericolo vero adesso è che su questa scia, si torni a parlare del tunisino che massacra la moglie, come ha fatto vedere Vespa l’altro giono a “Porta a Porta”, riducendo il problema della violenza sulle donne a un problema di coppie miste, del “barbaro” in casa, anche se la maggioranza degli uomini violenti qui sono italiani. Così, se alla fine è sempre colpa o delle donne o degli extracomunitari, gli uomini possono stare tranquilli.
Per la prima volta bisogna sostenere le donne che all’interno del parlamento sono ricettive, chiedendo che ascoltino attentamente chi di queste cose se ne intende, senza cadere nella trappola di Alfano, e chi con lui, tenterà di appiattire il femminicidio a un problema di emergenza e di sicurezza. Come avverte Barbara Spinelli, avvocata dei Giuristi Democratici esperta di femminicidio: “Non siamo disposte ad accettare oltre, strumentalizzazioni sul femminicidio a fini di visibilità personale o per perseguire altri obiettivi che non siano quello dell’autodeterminazione femminile. Le donne non sono soggetti deboli, la discriminazione che subiscono in quanto donne non è equiparabile a né ai bambini, né agli anziani, né ai disabili. Le donne che subiscono violenza in famiglia, da parte di padri, mariti, fidanzati, ex, sono discriminate rispetto ad altre vittime di reato, tanto nella protezione, quanto nell’accesso ai servizi, quanto nell’accesso alla giustizia. Spesso gli strumenti esistenti non vengono attivati sulla base di pregiudizi di genere, e assistiamo a situazioni abnormi come quelle che ultimamente riempiono i giornali”. Per superare questo ostacolo, bisogna quindi non gridare agli Stati generali, ma “avere sempre come riferimento che l’obiettivo dell’azione istituzionale deve essere quello di andare a rimuovere gli ostacoli materiali che impediscono alle donne il pieno godimento dei diritti fondamentali, primo fra tutti il diritto alla vita e all’integrità fisica”, e “di far luce sulla realtà con una relazione ufficiale, che venga fuori da una Commissione d’inchiesta, così che un domani, chi userà questi argomenti per opporsi alle necessarie riforme, verrà stanato per quello che è, cioè non un ignorante, ma un sessista”.
“La tuttologia non salva la vita delle donne. Il populismo neanche”, dice Spinelli, ed “è un dato acclarato che la maggior parte delle donne uccise è vittima di femminicidio, così come è un dato acclarato che più della metà di loro aveva già chiesto aiuto alle Istituzioni. Questo significa che più della metà delle donne uccise ha ricevuto un aiuto inadeguato. Istituire una commissione d’inchiesta significa decidere di far luce sul perché, e quante volte, e da parte di chi, la risposta alla denuncia di violenza maschile sulle donne è stata inadeguata. E non solo per quelle circa 130 donne uccise all’anno in quanto donne, ma anche per tutte quelle sopravvissute che, dopo aver denunciato, non sono state adeguatamente protette, e hanno subito nuove aggressioni, che magari non le hanno uccise, ma le hanno lasciate in sedia a rotelle, o le hanno costrette a cambiare città o regione”.
“E’ vero – conclude Spinelli – spesso da singoli politici e dalla società civile arrivano anche richieste confuse o inappropriate, come fu al tempo la richiesta di castrazione chimica per i pedofili: per arginare questo fenomeno e la strumentalizzazione del femminicidio, le istituzioni devono essere preparate a mettere al centro la donna, e non altri interessi. Nel frattempo, una task force interministeriale, inclusiva di esperte non governative, potrebbe interagire con la commissione d’inchiesta, e procedere insieme nell’apportare le necessarie modifiche al Piano Nazionale Antiviolenza in scadenza, che si è rivelato scarsamente efficace perché non idoneo a raggiungere gli obiettivi previsti, sia per la formulazione inadeguata alla luce degli standard internazionali, sia per l’assenza di fondi specifici alla realizzazione di varie azioni, sia per il monitoraggio inesistente sulla sua attuazione. Ma occorre coerenza. Anche da parte di quei personaggi famosi che s’improvvisano e si proclamano paladin* dei diritti delle donne, salvo poi, al posto di supportare l’esperienza e la lotta portata avanti dalle donne, assumere la parola in loro vece, alle volte stravolgendola”.