Angelo Corbo (nella foto), superstite a Capaci della scorta di Giovanni Falcone e oggi Ispettore della Polizia di Stato, è intervenuto al convegno Dal Pool alla Legislazione antimafia. Aspetti civilistici e commerciali, organizzato a Scandiano a cura della Fondazione Antonino Caponnetto e della Camera di Commercio di Reggio Emilia, invitato per la prima volta ad un evento pubblico. L’evento ha visto la partecipazione anche di Antonio Di Lauro, Consigliere delegato della Fondazione, di Enrico Bini, Presidente della Camera di Commercio di Reggio Emilia, e di Fabio Ferrari, referente della Fondazione per l’Emilia Romagna. In questa intervista, Angelo Corbo racconta con dignità e profonda umanità, la sua storia e il suo dramma.
Cosa significa essere uno dei pochi superstiti della strage di Capaci?
«Io non ho superato il fatto di essere vivo. Mi sento in colpa e mi sento uno sconfitto perché non ho difeso la persona che scortavo. Provo un profondo senso di vergogna per essere sopravvissuto e per non avere la forza di guardare in faccia le vedove e i figli dei miei colleghi morti».
In questi 21 anni ha mai pensato che la strage potesse essere evitata in qualche modo?
«Non era qualcosa che potevamo fare noi della scorta, c’è stata una mancanza da parte degli apparati superiori; eravamo coscienti che dietro di noi operassero i servizi segreti, ma speravamo che si potesse fare qualcosa per salvare Falcone, anche se Capaci ha dimostrato il contrario. Probabilmente non c’era la volontà di salvarlo. Sarebbe bastato non ridurre il personale addetto alla sua scorta o gli armamenti. Piccoli particolari che dall’esterno sembrano insignificanti, ma per chi svolge questo tipo di servizio da anni – e io ero con Falcone da tre anni – simili mancanze erano l’indizio che si sarebbe arrivati ad un’unica soluzione finale. Noi della scorta nutrivamo una speranza: che se fosse accaduto qualcosa, si fosse trattato di un normale agguato, con un conflitto a fuoco dove avremmo potuto reagire alla pari. Ma di fronte a quell’esplosione, non potevamo far nulla».
Perché un attacco di quelle proporzioni?
«Sarebbe stato facile colpire Falcone a Roma, quando era scortato solo da due agenti e girava tranquillo per la città. Ma no, la mafia l’ha voluto colpire in modo eclatante: il maxiprocesso del giudice Caponnetto e del Pool è stato molto importante, ha inflitto un duro colpo a Cosa Nostra. E quell’attentato è stato una sorta di smacco e di segnale forte a tutti i palermitani e siciliani onesti che avevano creduto nel Pool».
C’è chi sta pagando per quell’attentato. Ma era possibile sventarlo?
«Sotto l’autostrada è stato portato il tritolo, sono state compiute alcune prove, e sicuramente qualcuno ha visto. È di pochi giorni fa la dichiarazione di un ragazzo di Capaci, che aveva già riferito anche a me la stessa cosa, dicendo di aver fotografato strani movimenti nella zona in cui fu piazzato l’esplosivo. Sta di fatto che il giorno dell’attentato qualcuno lo ha avvicinato con un tesserino, chiedendogli quei rullini. Non sapremo mai se questa storia è vera, ma se lo fosse, sicuramente in quei fotogrammi c’era qualcosa che poteva essere utile alle indagini. Chi le ha svolte ha trovato gli esecutori materiali, che molto ingenuamente si sono fatti incastrare dai mozziconi di sigaretta gettati nel nascondiglio. Ma questo non basta a darci giustizia».
La sua è una storia nella storia: all’epoca della strage di Capaci aveva 27 anni. Cosa ha significato per lei essere un agente della scorta di Giovanni Falcone?
«Non mi sono mai pentito della mia scelta. Anche se non siamo noi agenti a scegliere di fare la scorta, ma veniamo scelti. Gli scortati sono i veri carcerati e non hanno più la loro libertà. Ma anche fare l’agente di scorta non è facile. Ho sostituito i colleghi che avevano chiesto il cambio dopo la tentata strage dell’Addaura. Ho vissuto il periodo peggiore di Falcone, denigrato ed ostacolato in tutto perché era diventato un personaggio scomodo: veniva trattato come una pezza da piedi. E noi eravamo con lui, 20 ore al giorno. Con il giudice istruttore di Palermo che lavorava dalle 7 del mattino alle 10 di sera».
Com’era il rapporto di voi agenti con Falcone?
«Con lui il lavoro era molto difficile. Non era un amico della scorta, noi eravamo professionisti ma c’era un certo distacco: pretendeva da noi la professionalità che anche lui aveva sul lavoro. Quando sento del rapporto familiare che il giudice Caponnetto aveva con la sua scorta, provo molta invidia».
E Falcone manifestava mai il timore di essere colpito da Cosa Nostra?
«Sapeva di essere un morto che camminava, come noi sapevamo di scortare un morto che camminava e, di conseguenza, di esserlo anche noi. Sicuramente eravamo convinti dei nostri mezzi. Come ho scritto, ci sentivamo protetti da uno scudo invisibile. Come dei supereroi. Del resto, per fare questo servizio bisogna essere, paradossalmente, poco lucidi, con l’adrenalina sempre in circolo. Essere al di là della paura, per vincerla quella paura. Ecco, noi eravamo convinti che in uno scontro ad armi pari avremmo sicuramente avuto la meglio. Sapevamo che poteva accadere, ma speravamo che non accadesse in maniera tanto vigliacca».
Quella del convegno a Scandiano è stata una delle sue prime uscite pubbliche. Perché?
«Si dovrebbe ricordare non solo chi perse la vita quel giorno, ma anche chi è rimasto vivo allora. E invece noi sopravvissuti facciamo parte di quella categoria di persone trattate come fantasmi. Non siamo nessuno e di noi non si parla. Ed è peggio che essere morti: non ero mai stato invitato prima d’ora ad una cerimonia ufficiale, eppure sono uno degli ultimi che ha visto il giudice Falcone vivo. E che ha visto i suoi occhi dopo l’esplosione. Non potrò mai dimenticarlo. Anche noi reduci abbiamo scritto la storia della lotta alla mafia. Eppure, è come per Caponnetto, di cui si parla poco, perché non ha subito una morte cruenta».
Perché il suo dramma non è stato capito?
«Penso che inizialmente sia stata anche una forma di protezione. Come se volessero dimenticare chi è rimasto vivo quel giorno per non so quale motivo. Posso fare solo delle ipotesi. Sta di fatto, comunque, che chi doveva starti vicino in quei momenti ti è stato lontano, facendoti sentire ancora più in colpa, e quando magari tu gridi la tua rabbia è là che risponde: “Cosa vuoi? Tu hai ricevuto una medaglia d’oro al valor civile, cosa pretendi, cosa chiedi?”. Senza sapere che chi subisce un dramma del genere, tanto più grande di lui, ha bisogno di una totale tranquillità psichica. Ecco, io ho voluto continuare a fare il mio lavoro e sono contento di farlo, ma sicuramente una pacca sulle spalle da parte di un esponente del mio ministero non mi sarebbe dispiaciuta. Soprattutto all’inizio, quando avevo bisogno di aiuto, quando per scelta forzata ho dovuto lasciare la mia città, Palermo, e trasferirmi a Firenze, proprio perché ero stato sconfitto e mi sentivo male. E anche lì nessuno si è mai chiesto: “Lei va in un’altra sede, ma come farà a vivere lì?”. Eppure bastava poco, magari essere ricevuto dal prefetto di quella mia nuova città, bastava un gesto umano».
Parla di problematiche psichiche. Come le ha affrontate?
«Non ho mai chiesto nulla e ho fatto di tutto per continuare a lavorare. Le ho nascoste per tanti anni fino a quando, nel 2006, ho rischiato quasi il suicidio. A salvarmi è stata la mia famiglia: ho avuto la fortuna di aver sempre accanto mia moglie. Qualcuno ha detto che dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna. Io non sono assolutamente un grande uomo, sono uno sconfitto, però ho avuto la fortuna di avere accanto una grande donna che ha capito i miei problemi e mi ha aiutato a superarli. Mi ha costretto a chiedere aiuto ad uno psicologo che mi ha spronato ad andare avanti e a non vergognarmi di chiedere aiuto. Così, è cominciato un percorso di rinascita e di riconquista. Ho iniziato ad aprirmi agli altri, a raccontare la mia storia, a farne una sceneggiatura e soprattutto a trasmettere ai ragazzi la mia disavventura, per insegnare loro qualcosa di importante, affinché crescano con consapevolezza e riescano in quello in cui noi abbiamo fallito. Ho iniziato questo percorso da 7 mesi: questo ha permesso anche a quella parte di me che quel giorno è morta di tornare in vita».
Cosa cerca di insegnare ai ragazzi?
«Cos’è la mafia veramente. Lo dico anche da palermitano: ho convissuto con il fenomeno mafioso per 27 anni, perché sono originario di un quartiere popolare di Palermo. Ci inculcavano dall’alto che la mafia non esisteva e che era un’invenzione dei giornali. E invece, la mafia esiste e quello che ti dà oggi te lo richiede indietro triplicato domani».
E oggi, cosa resta di tutte le sue paure?
«Le paure e i traumi restano anche a distanza di 21 anni. E non tutti ti credono quando dici che dopo 15 anni ti svegliavi ancora di notte, gridando, che non potevi sentire un tappo della bottiglia che involontariamente si stappava e cadeva a terra. Un episodio particolare mi è capitato lo scorso 23 maggio, l’anniversario della strage. Mia moglie mi ha costretto a fuggire da Firenze. Ero a Locarno e non pensavo a nulla, quando mi sono sentito colpire da qualcosa sulla spalla: un uccellino in volo aveva fatto cadere un pezzo di cibo dal becco, che era finito accidentalmente su di me. Istintivamente, ho guardato l’orologio: erano le 17.58. L’ora dell’esplosione a Capaci».