Delirio senza giornali. Il caffè del 2 maggio

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Approfitto del silenzio dei giornali per provare a dare alcune risposte alle critiche su twitter e facebook. Non dispiaccia agli autori che io le riformuli, queste critiche. Non sarà l’uso della rete, ma sono fatto così.

Pd e PDL non sono diversi. L’accordo di potere che hanno concluso, dando vita al governo Letta, era, a ben vedere, approdo inevitabile

Penso anch’io (per la verità lo ha detto pure Bersani) che nei venti anni della Seconda repubblica il Pd abbia subito l’egemonia della destra. L’unica cosa che sarà ricordata dei della sinistra è l’entrata nell’Euro e nel gruppo che guida l’Unione Europea. Ma si è trattato più di un’adesione “concessa” che di una lucida conquista. Siamo entrati in un’Europa senza governo, con la Banca centrale a far da guardiano della stabilità dei prezzi, autentica vestale del pregiudizio germanico per cui ogni forma di “debito” debba considerarsi “peccato”. Dopo la crisi del 2008 e i “muri” (così li ha chiamati Letta) che dividono nord e sud del Continente, non c’è troppo da vantarsi.

Ed è vero che, dopo il 2005, questa subalternità ha prodotto guasti rilevanti. Mi riferisco alla legge “porcata”. Un gioco di prestigio che regala un’ampia maggioranza in Parlamento a chi ottenga poco più di un terzo dei voti validi e che trasforma i parlamentari in “nominati” del capo partito e del capo coalizione. L’ha voluta la destra quella legge, ma il Pd ha cercato di usarla tre volte come scorciatoia per conquistare il governo. E ha fallito.

Subalterni, dunque, e resi simili dal maggioritario. In più con la colpa di aver rimosso il conflitto di interessi, e accettato qualche strapuntino nel duopolio televisivo. E tuttavia, secondo me, ancora diversi. Il Pd resta, infatti, legato al mondo del lavoro, sia quando si tratti di difendere istituti sindacali sia quando si tratti di proteggere le imprese dall’arroganza del sistema finanziaria. Al contrario, il PDL rappresenta le rendite grandi e piccole. Dai signori della finanza che non tollerano controlli, ai medi e ai piccoli evasori fiscali, fino ai “poveri” proprietari di prime (o di seconde) case. Pd e PDL sono poi divisi dall’idea di legalità. Non che deputati e consiglieri democratici non abbiano mai infranto la legge, ma il Partito ha almeno mostrato vergogna, magari  provando a nascondere la spazzatura sotto il tappeto. Mentre il PDL ha portato con orgoglio i ladri in Parlamento, li ha sempre difesi e ha messo sotto accusa i magistrati, che osavano sfidare il potere politico e sfiorare gli interessi dello stesso Berlusconi. Infine, destra e sinistra sono divise dall’idea di Europa. Letta e Napolitano sognano,infatti, gli Stati Uniti d’Europa. Mentre il solo motivo per cui Berlusconi non propone di andarcene via è che non ha il coraggio per affrontare la tempesta sociale ed economica che ne deriverebbe. Da questo punto di vista le “larghe intese” gli servono per prendere il fuoco (dopo essersi scottato) con le mani della sinistra. Cioè per spingere Letta e Napolitano a farsi valere con Merkel e Draghi permettendogli di mantenere parte delle promesse fatte agli italiani.

Ma se anche sono doversi ora governano insieme. Perché votare la fiducia e non incalzare Letta dall’opposizione?

Una risposta l’ho data in aula. Quando si fa parte del Gruppo che ha la maggioranza assoluta alla Camera (e relativa al Senato) non si può lasciare il Paese senza governo e il Parlamento a pettinare le bambole. C’è però un’obiezione: i Civati, i Mineo, che non sono d’accordo, perché non lasciano il Pd e vanno, ad esempio, con Vendola? Stessa coalizione, “Italia bene comune”, diversa collocazione parlamentare. Rispondo che la sinistra non mi é parsa in questi venti anni meno subalterna a Berlusconi né meno “ceto politico” di quanto non fosse il Pd.  “Rifondazione” e le sue scissioni, la lista “Arcobaleno”, il mito dei movimenti senza politica, poi “Italia dei Valori” e quel correre finale al riparo (!) della toga di Ingroia. Una sinistra che piange sulla sconfitta e grida  alla luna : “più a sinistra”. Con sempre gli stessi uomini, anche grazie alle briciole del finanziamento pubblico. Ceto, appunto, che non ha rubato, e questo è importante, ma è pure vero che non ne ha avuto l’occasione. Ancje lì,soprattutto lì, ci vuole aria nuova. Vendola però obietterebbe: sono diverso, ho sostenuto Bersani, ora discuto con Rodotà, con Landini, con Barca. E io infatti andrò al suo “Cantiere”. Ma penso che una discussione aperta, anche con Renzi e Tabacci, senza aver definito il recinto della sinistra della sinistra,sia, in questa fase, più utile. Non è il momento di affermare un’identità, come quando si sconta una sconfitta ormai inevitabile. E tempo di mescolare i linguaggi della sinistra (e uso il termine “sinistra” per riunire  tutte le idee che non si rassegnano del tutto al liberismo e alla dittatura dei mercati, al rigore e ai tagli indiscriminati del welfare). L’obiettivo è cercare un codice nuovo, finalmente fuori dal Novecento, che ci permetta almeno di discutere. Ci separeremo, quando sarà il caso, ma per fare “cose diverse”, non per poter dire ancora una volta “siamo diversi”

Ma sei “morto” Mineo. Non vedi la novità a 5 Stelle, quel popolo di cittadini che vi manderà tutti a casa?

Grillo rappresenta una novità, un vero “tsunami” che ha travolto la politica in Italia. I suoi cittadini che siedono in Parlamento mi sembrano persone per bene. Qualcuno somiglia a un onesto ragioniere di destra, altri a militanti di base della sinistra che si battono contro l’alta velocità, il mega radar americano, i veleni in fabbrica e nell’ambiente. Tutti non vogliono deludere le persone con cui si sono direttamente impegnati a fare questo o quell’altro, né le grandi piazze che Beppe Grillo ha saputo intrattenere. Ma che politica può nascere dal Movimento 5 Stelle? La paura di mescolarsi e di perdere l’anima, li spinge verso un linguaggio rivoluzionario. Ma non siamo davanti a  “rivoluzionari”. Perché né i capi né i semplici cittadini sembrano aver messo in conto i costi di una rottura del sistema, il rischio che lo Stato reagisca con la forza, o che qualcuno commetta, nel loro nome, atti di terrorismo, contribuendo alla fine a riabilitare l’avversario screditato. Santoro crede che Grillo sia una spugna, che impari. Vedremo se Michele ha ragione.

Intanto osservo che il linguaggio, le veloci consultazioni sul web, la diretta streaming servono a costruire una parvenza di democrazia alternativa, diretta, non mediata se non dal capo e dalla sua controfigura oscura (o meno nota). Tutto questo non mi piace per due motivi. Il primo l’ho detto : “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, non è cioè rappresentazione garbata e immaginifica di un conflitto. Purtroppo, conflitto.

Per spiegare il secondo motivo ho bisogno di una digressione. Mario Mineo, un rivoluzionario che temo commenterebbe  con un ghigno di compassione il dibattersi (in politica) di un suo nipote, parlava già 40 anni fa di “crisi di regime”. Alcune sue analisi tornano in questi giorni nella bocca di gettonati commentatori, i quali, come al solito, non conoscono o comunque non citano.  Il guaio è che la crisi è diventata cronica. Sono fallite le “grandi intese  del 76” che tanto piacciono a Napolitano. È fallito il tentativo di modernizzazione capitalista e partitica di Bettino Craxi. Come è fallito il neo liberismo illegale di Berlusconi. Per un po’ l’adesione all’Europa ha nascosto il problema, rendendo non rilevanti le scelte che si facevano in Italia, ora i nodi vengono al pettine.E nella soluzione che si prospetta Grillo ha un ruolo che non mi piace.

Lo dico, ma conto di ritornarci. La nostra è già una Repubblica Presidenziale, anche se non ci siamo dati la pena di cambiare la Costituzione. I partiti che corrono in ginocchio da Napolitano e il Presidente che si permette un discorso inaudito (mai udito, per dirla con  Cacciari) né davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America né nella Francia della Quinta Repubblica. Tutti dentro a sostenere il mio governo, ha detto in sostanza il Presidente. Fuori il Movimento 5 Stelle a imparare le regole dell’opposizione. Napolitano si é sentito costretto, egli stesso lo ha spiegato. Ed egli resta un democratico sincero. Ma dopo di lui quale sarà lo schema? Berlusconi contro Grillo. A uno la demagogia del governo, all’altro il populismo dell’opposizione. “Morti” i partiti (l’ultimo era il Pd), morituri i sindacati. Una Repubblica autoritaria, carismatica, bipolare. E se non ci fosse più Berlusconi, magari sarebbe Renzi contro Grillo. Ma in questo schema, davvero, le radici culturali e politiche del sindaco di Firenze non farebbero più la differenza.

Scusate l’estenuante lunghezza. Domani tornano i giornali e, con essi, lo sforzo di ancorare i miei pensieri alle notizie del giorno.

Corradinomineo.it


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