Raid aerei israeliani, stragi che si susseguono con immagini sanguinose, ribelli dipinti troppo spesso da resistenti, molto meno da miliziani qaedisti, quali molti di loro sono; e poi, un inquietante coinvolgimento dell’Iran in un conflitto a pochi chilometri dal confine con Israele: sono alcune delle notizie che riempiono articoli e servizi dedicati alla nuova svolta della crisi siriana, che ora vede in campo, impegnato militarmente, Israele. Un’escalation anticipata da diversi lanci di stampa su rivelazioni di un presunto impiego di armi chimiche contro i ribelli da parte delle forze di Bashar al Assad. Dietro, ancora una volta, una delle tante sigle di intelligence americane, forse supportata da qualche omologa europea. A decidere, ancora una volta, l’inquilino della Casa Bianca, che però, a differenza di quanto accaduto nel 2003 con l’Iraq di Saddam, oggi è un Barack Obama guardingo e molto poco intenzionato a lasciarsi coinvolgere.
Potrebbero essere gli elementi di un thriller di spionaggio americano, sono invece i pochi spunti che il cittadino medio italiano riesce a cogliere dai nostri media, e solo se legge o ascolta con attenzione. Nonostante in queste ore, tra l’Eufrate e le sponde mediterranee si stia giocando una partita pericolosissima per gli equilibri internazionali, quindi anche europei, quindi anche italiani.
Una situazione complessa, che per essere compresa, richiederebbe certo più disponibilità da parte dei media, restii a inviare all’estero giornalisti per lunghi periodi, ma soprattutto quei livelli minimi di sicurezza che ormai vengono negati ai reporter in tutte le aree di conflitto e in Siria particolarmente. Lo ha dimostrato il rapporto diffuso da Amnesty International nella Giornata per la libertà d’informazione: dall’inizio della rivolta contro il regime di Assad, il 15 marzo 2011, 36 giornalisti sono morti e numerosi risultano dispersi. Il 4 aprile sono stati liberati i quattro reporter italiani scomparsi, ma da oltre tre settimane non si hanno notizie dell’inviato de La Stampa Domenico Quirico. E, come lui, sono tuttora dispersi, forse nelle mani del regime, dei ribelli (di quale formazione?) o di gruppi di sbandati, tanti colleghi volati da tutto il mondo in territorio siriano per verificare cosa realmente accade sul campo. L’indagine di Amnesty si intitola appunto Colpire il messaggero. I giornalisti presi di mira da più parti in Siria. “Tutte le parti in conflitto stanno violando le leggi di guerra, sebbene il livello di abusi commesso dalle forze governative resti molto più grande” – ha dichiarato Ann Harrison, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
E non poter verificare sul terreno significa lasciare libero campo a qualsiasi azione di propaganda o depistaggio, da qualunque parte in conflitto arrivi. Come agire se non si crede fino in fondo neanche alle notizie e alle immagini di stragi, di civili quasi sempre, tra loro tantissimi bambini, in un’area del mondo in cui la percentuale di minori è altissima? Si deve appoggiare un intervento, e di chi, con le Nazioni Unite fuori da tutti i giochi? E come giudicare poi gli ultimi sviluppi. Israele giustifica i propri raid in quanto mirati a distruggere rifornimenti di armi agli Hezbollah libanesi, nemici dichiarati di Tel Aviv. Gli stessi però che al momento stanno combattendo proprio in territorio siriano. E come verificare ancora le notizie sui gruppi ribelli coinvolti nel conflitto? Quanto pesa sui combattenti la rete di al Qaeda globale, cosa significherebbe mandare rifornimenti o forze in appoggio a queste formazioni? E anche sull’uso di armi chimiche contro le forze ribelli, quanto è attendibile dell’informativa diffusa, prima, dai servizi israeliani e poi rilanciata dalla Cia, se ancora oggi dagli ambienti militari americani si mette in dubbio l’attendibilità di quelle rivelazioni. Sappiamo bene cosa accadde nel 2003 con l’ormai famoso falso rapporto sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein: solo l’abilità di alcuni reporter americani permise di rivelare le trame che lo avevano prodotto. Come, due anni più tardi, l’uso massiccio di armi al fosforo bianco da parte degli americani sulla città ribelle di Falluja, in Iraq, fu dimostrato grazie all’inchiesta di Sigfrido Ranucci e Maurizio Torrealta messa in onda da Rainews24.
Una questione apparentemente lontana anni luce dalle emergenze quotidiane di casa nostra, ma così non è. Capire cosa e chi si muove, cioè quali forze, paesi, interessi e, soprattutto, quali sono i veri obiettivi, le strategie, i soggetti che decidono, potrebbe aiutare i cittadini a capire e premere sui governi per evitare derive pericolose, come rendersi corresponsabili di altre migliaia di morti, e sprecare qualche migliaio di miliardi di dollari di armamenti. Se, infatti, il regime di Damasco ha oggi tutto l’interesse a tenere lontana l’informazione per avere mano libera nella repressione, uno speculare interesse a creare cortine fumogene e tenere distanti testimoni scomodi è anche di quei governi esteri che premono per un intervento. Per ragioni geopolitiche o per problemi di politica interna.
Difficile quindi raccontare la Siria dal vivo. Ma anche a distanza, raramente viene fatta informazione corretta ed esauriente. E questo, soprattutto, perché noi giornalisti sempre più spesso raccontiamo pedissequamente gli eventi con ritmo da cronaca nera, proponendo al pubblico “notizie orfane”, come le chiamava Roberto Morrione, senza un’origine, dimenticando il processo che le ha generate e evitando di offrire elementi per capirne il senso storico. Cronacaccia fatta di carne, sangue, edifici sfondati, veicoli saltati in aria. Guai cercarne le responsabilità, fermarsi a ragionare sul “cui prodest”, e quando il microfono passa all’esperto di turno, difficilmente viene spiegato quale sia il suo orientamento: non sia mai che lettori e telespettatori prendano il vizio di pensare!