di Gian Carlo Caselli
Tutti coloro (e sono un esercito trasversale, politici e media) che hanno nascosto o stravolto la verità sull’esito del processo palermitano a Giulio Andreotti hanno reso un pessimo servizio alla trasparenza democratica del nostro paese. I fatti incontestabili sono questi. Il sen. Andreotti era imputato (in estrema sintesi) di rapporti con la mafia. In primo grado c’è stata assoluzione. In appello la sentenza del tribunale è stata parzialmente ribaltata. Mentre per i fatti successivi il sen. Andreotti è stato ancora assolto, per quelli fino alla primavera del 1980 è stato dichiarato colpevole, per aver commesso il reato contestatogli. Il reato commesso è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente commesso. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello anche nella parte in cui si afferma la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980. Processualmente è questa la verità definitiva.
Parlare di assoluzione è fuori di ogni realtà. Difatti fecero ricorso in cassazione sia l’accusa che la difesa. Non ho mai visto, in oltre 50 anni di magistratura, un imputato che ricorre contro la sua assoluzione. Non esiste in natura. Ecco la prova provata, secondo una logica elementare, che non vi fu “assoluzione” per i fatti fino al 1980.
La corte d’appello (confermata, ripeto, in Cassazione) si è basata su prove sicure e riscontrate. In particolare ha ritenuto provati due incontri del senatore, in Sicilia, con Stefano Bontade, all’epoca capo dei capi, e altri mafiosi dello stesso calibro. Negli incontri (lo dice la sentenza) si discusse di fatti criminali gravissimi relativi a Pier Santi Mattarella, capo della DC siciliana, politico onesto che pagò con la vita l’essersi opposto a Cosa nostra. Principale fonte di prova fu il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, un “pentito” rivelatosi sempre analiticamente preciso (già con Giovanni Falcone) e mai smentito
La corte d’appello sottolinea poi che l’imputato non ha denunziato le responsabilità dei mafiosi incontrati, “in particolare in relazione all’omicidio di Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza”. In conclusione, la Corte d’appello ha ravvisato a carico di Andreotti “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”. Negare tutte queste verità documentate da una sentenza della Cassazione significa non voler elaborare la memoria di ciò che è stato perché si teme il giudizio storico su come (in una certa fase) si è formato almeno in parte il consenso in Italia.
Significa pure legittimare, per il passato per il presente e per il futuro, un modo di fare politica che contempla anche rapporti organici con la mafia. Significa indebolire la nostra già fragile democrazia.
Gian Carlo Caselli per “I Siciliani Giovani”