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Siria, l’angoscia è alta. E’ il Paese
attualmente più pericoloso per i reporter

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Rieccoci, ancora quattro reporter rapiti per non farli raccontare. Tre coraggiosi freelance (Elio Colavolpe, Andrea Vignali e l’italo-siriana Susan Dabous) più un caro amico, Amedeo Ricucci (nella foto) della Rai. Vecchia quercia: stava nell’Afghanistan sotto i talebani, nascosto in montagna insieme al mio vecchio compagno di viaggio Norberto Sanna, e stava con lui anche a Ramallah, in Palestina, quando i carri armati israeliani uccisero un valente fotoreporter, Ciriello. Adesso si trova Siria come ha annunciato brevemente sul suo profilo Facebook pochi giorni fa:  “Ci siamo. Parto. Per la Siria, ancora una volta. E’ doveroso e spero che serva a bucare il muro dell’indifferenza. SILENZIO, SI MUORE è non a caso il nome che abbiamo dato a questo nuovo reportage RAI. Lo potrete seguire giorno dopo giorno, fino al 15 aprile, sulle pagine del mio blog e sul sito www.lastoriasiamonoi.rai.it, grazie ad un web-doc che si preannuncia molto interessante. Parlatene, condividete i miei post, aiutateci a parlare di questa tragedia infinita”.

E’ partito infatti per un progetto importante. Lo ha spiegato lui stesso sul blog due settimane fa: “Onesta, umiltà, passione, competenza, interazione e trasparenza: sono secondo me i presupposti per costruire un nuovo patto di fiducia fra giornalismo e pubblica opinione nell’era della Rete e dei social network. Non c’è altra via per recuperare la credibilità di un mestiere che sembra aver perso l’anima, oltre che la bussola, e si dimostra sempre più incapace di intercettare le esigenze reali dei suoi  ”editori di riferimento”, quelli veri, che sono i lettori o i radio-tele-spettatori, al cui servizio noi giornalisti dovremmo  porci, sempre. Le tecnologie digitali offrono da questo punto di vista delle opportunità gigantesche per innervare di linfa fresca il nostro lavoro, per ridargli senso e dignità. Bastano solo un pizzico di coraggio e la voglia di sperimentare, rimettendosi in gioco personalmente. Prendiamo il caso della Siria, una tragedia infinita che si consuma nell’indifferenza delle cancellerie occidentali e dell’opinione pubblica internazionale. Raccontarla andando sul posto non è facile, come dimostra l’alto tributo di sangue già pagato dai giornalisti e dagli operatori dell’informazione che in questi due anni hanno provato a farlo. E poi c’è il rischio dell’effetto-assuefazione, che consiglia di non esagerare con le notizie, le foto o le immagini dai fronti di guerra per non turbare troppo i sensi e le coscienze delle famigliole riunite per cena nel tinello di casa. Tutto vero. Forse, però, l’indifferenza è figlia anche della nostra incapacità di raccontare la tragedia siriana, coinvolgendo di più e meglio il nostro pubblico, rendendolo cioè partecipe di quella tragedia. Ed è una cosa che si può fare, con le tecnologie che abbiamo a disposizione. Anzi, è una cosa che si deve fare, se si crede nel dovere della testimonianza e nel diritto all’informazione”. Una grande lezione, soprattutto per chi ancora non ha capito che il mondo non può rinunciare ai testimoni.

I quattro giornalisti italiani sono stati sequestrati, sembra, da un gruppo di ribelli al nord, appena passato il confine con la Turchia, stessa zona dove fu rapito l’americano James Foley. L’angoscia è alta. Ricordiamo che la Siria è il Paese più pericoloso attualmente per i reporter. L’anno scorso ne sono stati uccisi addirittura trentotto (undici stranieri), quest’anno già quattro. Almeno ventuno i rapiti di cui soltanto tredici rilasciati. Probabilmente Amedeo e gli altri sono stati traditi dagli accompagnatori. Perché la Siria è un posto maledetto dove addirittura mettono le taglie sui giornalisti.


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