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Si fondi al più presto un nuovo pd che ponga la strategia della ricostruzione del paese al primo posto

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Tatticismo esasperato, lentezze ed esitazioni  a volte incomprensibili, calcoli di convenienza evidenti, strumetalizzazioni degli argomenti degli avversari e di fatto incapacità di approvare riforme: l’elenco lo ha fatto Giorgio Napolitano nel suo discorso di insediamento per il secondo settennato di presidenza.
E ha detto con chiarezza che avrebbe preferito completare il suo incarico e riposarsi o far altro ma non ha potuto perchè le Camere gli hanno chiesto di restare.  Al Capo dello Stato anche da chi ha polemizzato più volte con lui apertamente va dato atto che ha dato una prova ulteriore della sua passione politica come del suo amore per le istituzioni che ha servito nella sua lunga vita.

Di questi gesti si ha molto bisogno in questa crisi che non è solo economica e sociale ma anche politica, istituzionale e morale come ho sempre detto sui giornali ai quali ho collaborato e sui siti web che ora ospitano i miei articoli.
Peccato che la crisi riguarda i politici in attività di gran parte delle forze politiche ma anche le organizzazioni di partito.
Il Partito democratico è imploso durante le elezioni per la presidenza ma la sua crisi rinvia alla sua formazione da due partiti del primo cinquantennio, la DC e il PCI. E’ nato da un accordo di vertici di due partiti ideologici della guerra fredda in un momento in cui erano in grave crisi e vicini a perire.

Ma non ha coinvolto nè la sostanza delle idee a cui si ispiravano nè le forme della loro organizzazioni. Il fondatore dell’Ulivo Romano Prodi, un uomo a cui mi sento oggi vicino più che mai, ha cercato di governare un partito formato in gran parte da politici di professione opportunisti e preoccupati prima di tutto della loro carriera personale. Lo ha fatto proponendo loro di essere il partito della costituzione repubblicana e dei principi costituzionali fondamentali.
Ma in quel partito, contrapposto a una destra che non riesce a diventare purtroppo una destra europea e non lo sarà mai fin quando il suo leader continuerà ad essere Silvio Berlusconi, non si è mai svolta una discussione adeguata di quei principi politici.

Come della democrazia interna necessaria a selezionare secondo il merito e la competenza piuttosto che con i vincoli amicali o i progetti economici e di interesse. Di qui le caratteristiche di una forza politica che dal 2006 al 2008 non è riuscita a portare a termine le riforme necessarie e quindi ha ceduto per la quarta volta il potere alla destra berlusconiana.
Prolungando cioè il primato della tattica e della lotta personale alla strategia e alla riorganizzazione dal basso che avrebbe dovuto far nascere un partito nuovo aperto alle libertà, alla giustizia sociale e alla democrazia interna.

Già perché questo è il problema di fondo di fronte a cui siamo e che, con ogni probabilità, non sarà risolto in questa legislatura. Perchè il capo dello Stato con l’autorità che gli viene non solo dalla sua eccezionale rielezione ma anche dalla crisi profonda dei partiti o personali e populisti come il Popolo della Libertà e il Movimento Cinque Stelle  o dilaniati dalle contraddizioni interne come il Partito Democratico non potranno attuare le riforme e neppure governare il paese con i principi fondamentali della Costituzione. E allora che cosa fare?

La sola cosa in questo momento possibile è una breve esperienza di governo che modifichi la legge elettorale, ponga le premesse delle riforme istituzionali necessarie (ma  il passaggio al semipresidenzialismo richiede una decisione di tutti gli elettori, a me pare) per la prossima legislatura – questa sì davvero costituente – e rinvii l’Italia a nuove elezioni generali.
Con la speranza che si pensi subito, senza perdere tempo, a fondare un nuovo partito democratico che ponga la strategia della ricostruzione del paese al primo posto, rinnovi regole interne e persone, parta dagli errori commessi e si presenti agli italiani con un programma chiaro e promesse che è in grado di mantenere.


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