Chiedo scusa, anche se so bene di avere assai meno colpe di altri. Chiedo scusa perché non si può rivendicare per anni la propria appartenenza a un partito, a un gruppo o un’organizzazione (nel mio caso, il Partito Democratico) e disconoscerla quando le cose vanno male. Chiedo scusa perché non ho fatto abbastanza: come giornalista, come attivista e come militante. Chiedo scusa, infine, perché non doveva finire così, per nessun motivo al mondo, e invece è andato tutto storto fin dall’inizio, fin dalla scelta di un galantuomo come Franco Marini che, però, non rispondeva all’esigenza e alla pressante richiesta di cambiamento che sempre più forte si è alzata in questi mesi da un Paese in declino e stremato dalla crisi.
Tuttavia, chiedo scusa soprattutto perché queste riflessioni, quest’articolo così duro e arrabbiato avrei dovuto scriverlo mesi fa, quando invece eravamo tutti presi dalla gioia per il bel risultato delle Primarie, con il PDL ai minimi storici, Berlusconi che sembrava oramai fuori dai giochi, Monti che non riusciva a dare un senso alla propria creatura in embrione e un PD che pareva aver finalmente trovato la propria ragione sociale e costitutiva nell’idea di un rinnovamento serio e capillare del proprio gruppo dirigente.
Poi, però, è accaduto ciò che non sarebbe mai dovuto accadere. È accaduto, infatti, che le Primarie per i parlamentari, suggello della partecipazione democratica dopo il trionfo di quelle per la scelta del candidato Premier, si sono svolte nel modo e nel momento peggiore: alla vigilia di Capodanno, con milioni di elettori impegnati a preparare il cenone o in vacanza con la famiglia (i pochi che ancora se lo possono permettere) e decine di ottimi candidati, parlamentari uscenti e non, costretti a cimentarsi in una competizione che sembrava fatta apposta per favorire l’affermazione del gruppo dirigente che ci ha condotto all’attuale disastro.
Infine, il capolavoro dei capolavori. Una volta fatte le Primarie, ci saremmo difatti aspettati che il loro esito venisse rispettato; al contrario, ci siamo ritrovati a dover fare i conti con una miriade di palesi ingiustizie, tra candidati nominati dall’alto inseriti nei cosiddetti “posti sicuri” e candidati scelti dagli elettori inseriti in posti a rischio, là dove sarebbe bastato che Berlusconi o Grillo prendessero lo 0,3 per cento in più e non sarebbero entrati.
Non so se si sia trattato di un errore o di una scelta deliberata; so soltanto che i nostri elettori non lo hanno accettato e, al pari loro, milioni di cittadini increduli di fronte alle scelte di un partito che parlava senza sosta di cambiamento ma trasmetteva sempre più un’immagine di arroccamento e conservazione.
A tal proposito, mi sia consentita una piccola digressione personale. Devo, infatti, delle sincere scuse a una carissima amica: una delle vittime di questo meccanismo infernale, fortunatamente eletta ma inserita in una posizione intollerabile e costretta a sfinirsi per condurre il partito ad un risultato quanto meno decente in una Regione tra le più difficili d’Italia. Non farò nomi, non è il caso, ma non mi perdonerò mai di non aver alzato maggiormente, e pubblicamente, la voce per evitare che venisse trattata così da un PD che negli ultimi mesi, va a capire perché, ha smarrito l’anima.
I commentatori più maligni sostengono che il disastro duri oramai da vent’anni, ma non sono d’accordo. Sia pur con alterne fortune, difatti, non è vero che le forze progressiste siano, dal 1994, d’accordo con Berlusconi. Conosco e sono amico di decine di parlamentari democratici che di Berlusconi e, in particolare, del berlusconismo ne pensano tutto il male possibile e lo hanno sempre testimoniato: sia a parole sia a livello di azioni concrete.
Altre penne al vetriolo non fanno che ripetere che è tutta colpa di Bersani, che ancora una volta l’ormai ex segretario non ne ha indovinata una, che è stato lui a condurre il partito alla “non vittoria” alle recenti elezioni e alla débâcle cui abbiamo assistito in questi giorni, ma anche questa vulgata è ingenerosa e profondamente falsa.
Bersani, a mio giudizio, ha sbagliato e anche molto ma non certo da solo. Allo stesso modo, la segreteria e la classe dirigente hanno sì le loro belle responsabilità, ma non sono gli unici. Più di tutti, da questo punto di vista, sono colpevoli quei centouno traditori che nel segreto dell’urna hanno ucciso il progetto del PD e, quel che è peggio, l’avvenire e la credibilità internazionale dell’Italia.
E non ho problemi ad asserire che, secondo me, coloro che hanno fatto carte false per impedire a Rodotà di salire al Quirinale sono gli stessi che l’indomani, dopo averlo acclamato nel corso della riunione dei grandi elettori del Partito Democratico, hanno pensato bene di far fuori Romano Prodi, con un atto di una codardia e di una stupidità senza eguali.
Si è consumato così il dramma di un partito che, in due giorni, ha bocciato sia la sua tradizione laica e socialista sia la sua matrice cattolico-democratica, di cui Prodi, da buon dossettiano, è uno dei massimi e dei migliori interpreti. In meno di ventiquattr’ore, dunque, ci siamo trovati di fronte all’implosione di una collettività che, evidentemente, non è mai riuscita a trasformarsi davvero in quella grande comunità solidale che avrebbero auspicato i nostri elettori, rinnegando la propria storia, le proprie origini, la propria cultura e tutti quegli ideali e quelle ideologie (parola attualmente quasi impronunciabile ma, in realtà, nobilissima) senza le quali nessun partito, in nessuna parte del mondo, ha ragione di esistere.
Personalmente, in questi anni di turbolenze e crescente disincanto, ho avuto la fortuna di far parte dell’unica corrente, l’Area Democratica di Fassino e Franceschini, che ha avuto veramente il coraggio di amalgamarsi, fondersi e camminare insieme, tenendo da conto la provenienza di ciascuno di noi e aprendosi con coraggio e lungimiranza ai nativi del PD, alle energie fresche e pulite che si muovono con entusiasmo nel Paese e a quella miriade di giovani che oggi si rivolge a Grillo perché non trova più spazio in partiti che vede come dei bunker nei quali non avrà mai la possibilità di far sbocciare le proprie idee.
Lo rivendico con orgoglio perché non è vero che siamo tutti uguali, neanche nel PD. Questo gruppo di persone, ad esempio, l’ho conosciuto, per lo più, nelle piazze organizzate da Articolo 21 e dal Popolo Viola, da Libertà e Giustizia e da quei movimenti che altri, nel partito, hanno sempre demonizzato o guardato con sospetto. E lo rivendico perché adesso è giunto il momento di rimboccarsi le maniche, ricostruire e guardare avanti, senza rancori o recriminazioni ma cercando di tenere a debita distanza tutti coloro che potrebbero comportarsi come quei centouno bugiardi che hanno costretto un uomo stanco e sfinito a rimanere in carica, fornendo l’immagine di un Paese in disarmo, incapace persino di rinnovare le proprie istituzioni e, pertanto, privo di ogni affidabilità.
Il fatto, poi, che tra questi vigliacchi pare ci siano pure alcuni neo-eletti la dice lunga sull’assurdità delle formule magiche con cui populisti e demagoghi di varia natura credono di poter aggiustare una situazione che, al contrario, può essere risanata solo innervando questo progetto, che ora come ora sembra morto, di un’ideologia all’altezza delle numerose sfide della modernità.
Solo smettendola di seguire definizioni insulse come “post-moderno”, “post-ideologico”, “moderato”, “riformista” e simili idiozie e solo smettendola di strizzare l’occhio ai dogmi del neo-liberismo che stanno sfibrando l’Europa, infatti, potremo ritrovare quella “connessione sentimentale” con la nostra gente che non ci vota più perché non ci capisce, non ha ben chiaro quali idee abbiamo (sempre che certi personaggi ne abbiano qualcuna) e che tipo di società abbiamo in mente.
Solo rimettendo al centro del nostro dibattito interno temi come la scuola, il lavoro, l’università, la giustizia sociale, la difesa dell’infanzia e dei diritti umani, la lotta contro ogni prevaricazione e sopruso, contro il conflitto d’interessi di cui Berlusconi è il principe ma non certo l’unico interprete, insomma solo quando torneremo ad avere un pensiero chiaro, umile e comprensibile a tutti potremo davvero sfidare i “vaffa” di un movimento che ha saputo ascoltare la rabbia montante nel Paese e fornirle delle risposte, sia pur assurde, irrealizzabili e per la maggior parte anche pericolose.
Solo allora, inoltre, potremo avviare un vero rinnovamento della nostra classe dirigente, perché a dover essere cambiati non sono solo i volti ma, soprattutto, le idee di chi pretende di fare politica senza avere una visione della società e del mondo, semplicemente affidandosi all’esaltazione infantile della moda del momento.
In conclusione, permettetemi di rivolgere tre immensi ringraziamenti: a Stefano Rodotà, un galantuomo il cui nome è stato fin troppo offeso e strumentalizzato in questi giorni convulsi; a Romano Prodi perché, se amo e mi dedico alla politica, è soprattutto merito suo e, più che mai, a quel gigante di Giorgio Napolitano che a quasi novant’anni ha impartito una lezione di stile e di vita a quei piccoli uomini che non hanno avuto nemmeno la dignità di mantenere la parola data.