Che Nino Di Matteo fosse un obiettivo della mafia lo si sa dal 1992 quando diventò pubblico ministero presso la procura di Caltanissetta. La prima volta che indossò la toga fu alla camera ardente allestita a Palermo per Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Il giovane pm fu immediatamente “gettato nel mare in tempesta”. Cominciò a seguire i primi processi di mafia. Nel 1993 entrò ufficialmente nella Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta. Verso la fine dell’anno la polizia intercettò una conversazione tra mafiosi di Gela che stavano per preparare un attentato a lui e al collega Raffaele Califano. Vent’anni di vita blindata con un unico obiettivo quello di combattere la criminalità organizzata nel trionfo della giustizia. Di Matteo sin da piccolo ha respirato codici e processi. Il nonno, prima magistrato poi avvocato come lo fu il padre. “Da mio padre ho imparato che, al di là della diversità dei ruoli, il processo deve comunque essere affrontato con lealtà e correttezza deve mirare allo scopo essenziale dell’accertamento della verità”. Mi disse Di Matteo quando insieme scrivemmo un libro dedicato alla Giustizia. “L’unica garanzia del pm”, aggiunse, “la sua vera forza è quella di riuscire a non farsi mai condizionare da niente e da nulla. Nel momento in cui dovesse decidere, adeguandosi a un comodo e perciò umano meccanismo mentale, di fare quello che tutti si aspettano o ciò che è più conveniente in funzione dell’acquisizione di maggiore tranquillità o maggiore notorietà o maggior consenso sociale, in quel momento il pubblico ministero perderebbe la sua autorevolezza e la sua credibilità”.
Soltanto il rigoroso rispetto della legge può garantire al pm sicurezza e serenità anche nei momenti più difficile. Quello che sta attraversando Nino Di Matteo è sicuramente il momento più difficile della sua carriera. L’aver scoperto per l’ennesima volta che di Cosa nostra (amici romani del capo Messina Denaro) ha l’intenzione di mettere fine alla sua esistenza, grazie a due le lettere anonime recapitate in procura a Palermo direttamente da un componente del comando di morte, che a suo dire, non è d’accordo con l’attentato contro il magistrato che indaga sulla trattativa Stato-mafia, la dimostrazione della solitudine in cui il magistrato sta vivendo. La solitudine è il nemico peggiore per chi fa il lavoro del magistrato. Lo fu per Falcone e Borsellino e i troppi caduti sotto i colpi della mafia ma con uno Stato che ha guardato vigliaccamente dall’altra parte. Il pubblico ministero Di Matteo è stato lasciato solo nei fatti, con azioni gravissime e irresponsabili come quella del procuratore generale della Cassazione Ciani che ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti del magistrato, accusandolo di aver violato “i doveri di diligenza e di riserbo” e “il diritto di alla riservatezza” del presidente della Repubblica; le critiche dell’Associazione nazionale dei magistrati, sempre più politicizzata; infine, nonostante la lunga esperienza di Di Matteo, il Csm, con atto sprezzante, cestina la sua domanda per procuratore aggiunto di Caltanissetta preferendogli la collega Lia Sava. Di Matteo è un pm scomodo non solo per la mafia, la sua carriera è segnata da processi alle istituzioni: al giudice Giuseppe Prinzivalli, accusato di essere stato corrotto dalla mafia, salvato dalla prescrizione del reato; al presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro, all’ex maresciallo dei carabinieri Antonio Borzachelli, poi politico dell’Udc, condannato per concussione e rilevazione di notizie riservate; Domenico Miceli, assessore a Palermo, il tramite tra il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro e Cuffaro; Giovanni Mercadante, ex deputato di Forza Italia, “braccio politico” di Provenzano in cambio di voti; al maresciallo della finanza Giuseppe Ciuro, condannato per favoreggiamento nei confronti del magnate della Sanità di Bagheria Michele Aiello, a sua volta condannato a quindici anni; all’ex questore Ignazio D’Antone, già capo della Mobile di Palermo, condannato a dieci anni per aver aiutato mafiosi latitanti a sottrarsi alla cattura. Attualmente è il titolare (dopo l’abbandono di Ingroia prima per il Guatemala, poi per la politica), del processo Stato-mafia in cui lo Stato processa se stesso, per la prima volta pezzi delle istituzioni e pezzi della mafia sono insieme dietro alla sbarra con la stessa imputazione di violenza a corpo politico dello Stato: Totò Riina, Antonino Cinà, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca con l’ex senatore Marcello Dell’Utri, l’ex ministro Nicola Mancino e gli ufficiali dell’Arma Mauro Mori, Antonio Subrani, Giuseppe Del Donno. Inoltre sta seguendo il processo per il mancato arresto del boss Bernardo Provenzano in cui sono imputati il solito Mori e l’ufficiale del Ros Mauro Obinu. Nino Di Matteo è il magistrato che insieme ai colleghi di Palermo sta riscrivendo la storia politica degli ultimi vent’anni. Al magistrato di cui mi onoro dell’amicizia, va tutta la solidarietà la riconoscenza dell’Associazione Articolo 21 e degli italiani. Articolo 21 con le sue iniziative non lo lascerà solo.
Nino Di Matteo e Loris Mazzetti hanno scritto il libro “ASSEDIO ALLA TOGA. Un magistrato tra mafia, politica e Stato” Aliberti editore.