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Libri. Giovanni Tizian racconta la sua guerra infinita e la sua vita sotto scorta

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Per scrivere il libro “La nostra guerra non è mai finita” (Mondadori, 2013), Giovanni Tizian ha trovato la forza e il coraggio di raccontare senza pudore e senza reticenza quale sorpresa mista a rabbia e paura provò il 22 dicembre 2011, il giorno che la Questura di Modena, in modo inatteso, senza fornirgli dettagli, gli assegnò una scorta.

Lo chiamarono e gli dissero solo che alcuni malintenzionati volevano fargli del male a causa delle inchieste giornalistiche che svelavano il livello di penetrazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Giovanni racconta l’angoscia di quel giorno e quella dei giorni successivi, di questo lungo anno di vita blindata.

I malintenzionati che volevano fargli del male erano faccendieri e uomini di ‘ndrangheta intercettati mentre parlavano tranquillamente di sparargli in bocca perché disturbava il grande affare dei video-poker.

Noi lettori lo abbiamo saputo il 23 gennaio scorso (leggi). Giovanni lo sapeva da mesi, ma solo quel giorno gli hanno fatto ascoltato l’audio di quella telefonata, e ha provato un brivido. Ha capito perché a dicembre del 2011 quella terribile telefonata allarmò molto  il procuratore capo di Bologna, Roberto Alfonso (leggi) che invano ha chiesto di contestare a quei malintenzionati il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.

Aveva già tante cose da raccontare, Giovanni, e quella minaccia è quasi un intralcio nel racconto di questo libro palpitante di passione. Giovanni ci fa partecipare all’avventura della sua vita, ai suoi sogni, al suo dolore, alle sue angosce. Ma il peso della minaccia, della scorta, della limitazione dei movimenti riemerge di continuo, con notazioni timide, discrete che, negandola, tradiscono la sua ansia, ma non lo fanno desistere dalle sue inchieste giornalistiche.

Ciò fa capire come, alla soglia dei trent’anni, una grave minaccia possa intristire una vita spensierata, ma da sola non può piegare un progetto di impegno civile e professionale. Come dirò meglio più avanti, il racconto di Giovanni aiuta a  comprendere, un aspetto spesso trascurato di queste vicende: la minaccia rivolta ad una singola persona, per quanto mirata, non colpisce soltanto quella persona. Colpisce anche coloro che gli stanno intorno, che tengono a lui, che gli vogliono bene, e in primo luogo i familiari. In questo la minaccia ha qualche analogia con la lupara, con la rosa di pallettoni che avanza verso il bersaglio allargandosi e non colpisce solo il centro del bersaglio.

Con brevi incisi narrativi, senza indulgere nell’intimismo, Giovanni svela il suo stato d’animo. Ci fa capire che una minaccia non provoca solo paura: provoca angoscia, rabbia, disperazione un senso di smarrimento e di impotenza. Le sue parole mi fanno immaginare che una minaccia può essere angosciante quanto scoprire una brutta  malattia. Nel senso che la minaccia non è solo motivo di paura, è qualcosa che ti cambia la vita, che limita i tuoi movimenti, che danneggia e fa soffrire anche chi ti sta intorno.

È interessante descrivere questa sindrome che è ancora poco conosciuta e poco studiata, nonostante sia molto diffusa nel nostro povero paese, in cui il popolo invisibile dei minacciati è molto, molto numeroso: da soli i giornalisti minacciati si contano a migliaia, e sono solo un ramo di questa famiglia.

Il racconto di Giovanni Tizian parte dalla rivisitazione, che riesce finalmente a fare, da adulto, della drammatica storia di suo padre, onesto funzionario di banca, assassinato a Bovalino il 23 ottobre 1989, quando lui aveva otto anni. Quello di Peppe Tizian è uno dei troppi omicidi rimasti impuniti. Giovanni giudica approssimative le indagine che furono fatte. E data da quel giorno l’inizio della “guerra che non è mai finita” per la sua famiglia, che fuggì dall’amata-odiata Calabria e approdò nella favolosa Emilia Romagna, terra generosa, accogliente, immune dal male oscuro della Calabria. Almeno tale apparve a Giovanni fino a quando, nella nuova terra, scoprì insediamenti di quella stessa ‘ndrangheta che gli aveva ucciso il padre, che aveva distrutto con il fuoco la piccola fabbrica di mobili del nonno e con quell’incendio aveva scacciato la sua famiglia da Bovalino.

Come ha fatto Giovanni a vedere a Modena e dintorni tracce di mafia che altri non distinguevano? Io credo che gli studi di criminologia, il giornalismo investigativo, la storia familiare abbiano dotato Giovanni di uno sguardo più acuto e penetrante, della capacità di valutare piccoli indizi e di collegarli fra loro. Il resto è frutto della sua intelligenza e del suo coraggio, perché ci vuole anche coraggio per dire cosa la propria mente e i propri occhi hanno visto.

Pagina dopo pagina, Giovanni racconta cosa vede con quelli occhi miti. Capitolo dopo capitolo ci accompagna in luoghi che a noi sembrerebbero tranquilli e invece a lui mostrano un volto corrotto dall’inquinamento affaristico-criminale, il volto spaventoso che molti, per quieto vivere, per opportunismo, per indifferenza, si sforzano di farsi piacere. È un grande viaggio quello che ci porta dentro scandali enormi ben nascosti, che i giornali raccontano di malavoglia, per i quali non trovano mai abbastanza spazio.

Strada facendo Giovanni ci fa entrare nella sua vita di fuggiasco inconsapevolmente in cerca di un luogo felice, in cui non siano già arrivati i tentacoli di quella mafia che uccise suo padre, che scacciò dalla Calabria la sua famiglia, che ha minacciato lui stesso di morte mentre viveva a Modena.

Giovanni dice con difficoltà, ma senza pudore come vive questa terribile esperienza. E come estremo atto di generosità ci dice anche come l’ha vissuta sua madre.

“La vita continua, gli amici sono sempre con me. Mia madre – scrive – è preoccupata, certo, ma nemmeno questa nuova sfida riesce a scalfire il suo ottimismo e l’innata gioia di vivere. Prova a scriverle. Le viene naturale, o forse necessario”. (Leggi il testo integrale)

Aggiunge che due mesi dopo l’inizio della sua vita sotto scorta, l’8 marzo 2012, Giornata della donna, durante un’iniziativa di Libera, sua madre rese pubblico il suo stato d’animo e la sua sofferenza gridando: “Mafiosi e voi che li proteggete, con l’indifferenza, con l’interesse e col silenzio, siete solo ombre d’esistenza. Vuoto di anima e occhi ciechi. Ridatemi mio figlio e riprendetevi la vostra vita”. Il discorso della mamma di Giovanni è una delle pagine più intense del libro, non la sola che ne fa una lettura avvincente.

Da Ossigeno per l’informazione


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