“Anche se il vento ci soffia contro, abbiamo sempre mangiato pane e tempesta e passeremo anche questa…”. E’ in un bel libro di Stefano Benni ed io me la sono scritta a caratteri cubitali su una lavagnetta attaccata al frigorifero, in modo che sia la prima cosa che leggo ogni mattina. Mi serve da autoincoraggiamento tutte le volte che mi alzo sapendo che è stata pubblicata una delle mie video-inchieste. So infatti che trascorrerò le successive 48 ore a rispondere ad attacchi, sapendo che le parole che sentirò pronunciare di più sono “querela” e “risarcimento”. Nei ritagli di tempo può capitare di dover portare l’auto dal gommista per gli ormai soliti tagli. Devo dire che da quando pubblico i miei lavori sul Corriere.it, l’edizione web del Corriere della sera, i miei “capi” che capiscono tutto perché vengono dal lavoro fatto consumando le scarpe, non mi hanno mai fatto mancare tutto l’appoggio necessario. Ma non è stato sempre così. Anzi, non è stato quasi mai così. Quelle due paroline “querela” e “risarcimento” sono diventate l’arma migliore contro i reporter di inchiesta, soprattutto quelli precari, precarizzati, abusivi, freelance o comunque vogliamo chiamarli… cioè quelli che vanno in giro ad approfondire i fatti e che con il loro lavoro riempiono le pagine dei giornali. Grazie al presidente dell’ordine dei giornalisti Enzo Iacopino ho avuto modo di raccontarlo anche al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quindi provo a spiegarlo ancora con le stesse parole usate in quella occasione. Essere precari, precarizzati, abusivi, free lance etc… significa a volte non arrivare a fine mese, subire pressioni, eppure tirar fuori notizie, stare per strada. Rischiare in prima persona, confrontarsi col camorrista, col mafioso e con i colletti bianchi della criminalità organizzata che sempre più spesso pensano di fermarti, sfiancarti, intimidirti, minacciando e proponendo querele infondate. A me è successo tante volte, e succede ancora, soprattutto quando documento intrecci tra il mondo dell’economia, della politica e delle mafie. Nessun procedimento è mai arrivato a giudizio perché la maggior parte delle volte le accuse erano semplicemente pretestuose, proposte da chi sapeva di avere di fronte un precario, un non garantito, un non tutelato, uno che doveva pagarsi l’avvocato per andare a sostenere gli interrogatori o depositare tutti gli atti su cui si fondavano i propri pezzi, che perdeva giornate di lavoro, che rischiava anche di essere messo da parte.
Poi però capita anche peggio, e cioè che un editore si svegli un bel giorno, calpesti il principio del rischio di impresa e tradisca quel patto di fiducia, di solidarietà, che c’è con il giornalista che ha scelto, quello che ha lavorato sodo, che tante volte gli ha portato gli scoop che fanno vendere tante copie… e decide di chiedere un risarcimento danni al cronista per una causa in sede civile persa in merito ad una vicenda complessa e per una diffamazione dovuta prevalentemente ad un titolo sbagliato (elemento che non compete ad un collaboratore) e a una rettifica inadeguata, che il cronista precario aveva invece più volte sollecitato.
E’ capitato a me. So di subire un’ingiustizia, sto affrontando tutto e ho il dovere di non restare zitta, ho il dovere di raccontarlo come faccio oggi, perché potrebbe succedere la stessa cosa a tanti altri, soprattutto se dovesse passare questa linea.
L’editore Caltagirone mi ha chiesto i danni… li ha chiesti a me giornalista precarizzata che per anni, fino al 2008 ha coperto la cronaca nera e giudiziaria di tutta la provincia di Napoli per “il mattino”. Una situazione giustificata incredibilmente da uno dei vertici dell’azienda come una conseguenza di una causa di lavoro che io avevo intentato contro il giornale, per far valere i miei diritti che ritenevo lesi. Non certo per tornare a lavorare lì, ma per una questione di dignità, per giustizia e per lasciare una testimonianza agli altri che come me avevano fatto un percorso simile. Accanto a me oggi c’è tanta gente, amici e sconosciuti. Innanzitutto c’è il Coordinamento Giornalisti Precari della Campania, il gruppo di colleghi più attivo e battagliero a Napoli, che tra le tante iniziative messe in campo, con Simona Petricciuolo, una delle fondatrici del movimento, ha raccolto, non attraverso il web, ma a mano, centinaia di firme a mio sostegno. Accanto a me ci sono i gruppi di giornalisti precari di tutta Italia, da Informazione Precaria, a Errori di Stampa fino a Refusi etc.. ci sono Assostampa, l’Fnsi, l’Ordine e il presidente Iacopino, sempre, con coraggio accanto ai più indifesi. E poi tante associazioni come Ossigeno e Articolo 21, che ancora una volta in questi giorni alza la voce contro le querele temerarie e in particolare quelle subite dai colleghi della redazione di Report e del loro “capo” Milena Gabanelli. Un team di giornalisti che non guardano solo il loro orticello, ma che rispetto ai guai degli altri, non si sono mai girati dall’altra parte: sono stati tra i pochi insieme con Riccardo Iacona a raccontare il precariato nel giornalismo e pure per la vicenda che mi ha riguardato, non mancarono di mettersi dalla mia parte raccogliendo anche loro delle firme in redazione. Articolo 21 fa bene a difendere chi continuamente subisce intimidazioni attraverso azioni giudiziarie, annunciate o attuate, con una disinvoltura che sconcerta. Alcuni mesi fa insieme ad altri colleghi fui ascoltata in commissione antimafia e tutti noi chiedemmo degli interventi legislativi più precisi e puntuali sulla previsione di una forma di risarcimento a carico di chi propone querele infondate, da definire già al momento dell’archiviazione o del proscioglimento. Forse così a qualcuno passerà la voglia di interrogare inutilmente i giudici solo per spaventare i giornalisti. Alla fine io non mi sono spaventata e continuo a fare questo lavoro, non saprei fare altro, non voglio fare altro.. ma, come dicevo, ogni volta vivo con ansia il mio lavoro, con il pensiero non solo delle ordinarie intimidazioni, ma soprattutto che una vita intera possa essere condizionata da una eventuale richiesta risarcitoria. Un pensiero comune a tanti che come me non hanno un cognome famoso, e che invece continuano nella normalità a fare giornalismo d’inchiesta, di denuncia, senza vestirsi con abiti da supereroi, ma facendo semplicemente quello che è giusto, quello che deve essere fatto, quello che appunto è normale. Subendo però la anormalità dell’assenza di tutele, l’anormalità di compensi inaccettabili, e perfino l’accanimento degli editori. Prima o poi qualcuno di noi dirà “ma chi me lo fa fare”. E sarà in quel preciso istante che diventerà precaria anche la libertà di stampa.