Il tutto ruota su un interrogativo fondamentale, che ricorda il famoso detto dell’uovo e della gallina, ovvero: siamo noi che facciamo il Web o è il Web che fa noi? La questione è quanto una tecnologia così potente possa cambiare il modo di pensare, di conoscere e di rapportarsi degli individui di una società; e parallelamente quanto la cultura già introiettata da parte degli utenti possa influenzare il dibattito digitale e i contenuti di un mezzo di conoscenza. La risposta degli esperti è che, ovviamente, sono vere entrambe le istanze: tecnologie e società si influenzano e modellano vicendevolmente. Basti pensare all’aspetto assunto da un medium più tradizionale (e che oggi cerca di emancipare dalla logica meramente broadcasting) come la televisione. Le trasmissioni, ma anche le stesse pubblicità, trasmesse dalle nostre emittenti sono non poco diverse da quelle che possiamo vedere in Paesi vicini come la Francia o la Germania. Stessa tecnologia, un bel po’ di culi e tette in meno (tanto per fare un esempio, con rispetto per il loro pubblico affezionato). Senza parlare poi della relativa normativa, su cui Articolo21 dedica ampie riflessioni.
Il fatto che la tecnologia non sia indipendente da una società rende improbabile l’ipotesi che la rete sia, in senso stretto, “libera”. Sia chiaro, il Web è uno strumento dalle potenzialità eccezionali, e sarebbe da sciocchi non accorgersi della facilità e della rapidità con cui grazie a esso riusciamo a trovare informazioni e scambiare opinioni, così come possiamo mobilitare gruppi e vincere battaglie importanti. Con un click, poco tempo fa, era possibile sottoscrivere una petizione per fermare la pratica della fustigazione nelle Maldive. Il caso era scoppiato dopo la condanna a 100 frustate, da parte di un tribunale locale, inflitta a una quindicenne vittima di stupro. Ed è stata straordinaria la mobilitazione che la rete Avaaz.org è riuscita a creare, in tutto il mondo. Non c’è stata soltanto la soddisfazione di aver potuto dare un contributo (anche se nel fitto tram tram quotidiano) per una buona causa, ma anche la percezione del calore di una rete di supporto mondiale per la difesa dei diritti umani. Il che rincuora non poco.
Ma accanto a esempi luminosi della rete, c’è come in ogni cosa il lato oscuro. Sinceramente, chi non ha mai ricevuto via mail quelle catene in cui si è invitati alla mobilitazione per cause inventate? Le quali regolarmente, anche dopo anni, tornano a infestare le caselle di posta? La rapidità della rete rischia di fare a pugni con l’esigenza di verità. Un click (sempre nel fitto tram tram quotidiano) a volte è troppo rapido e semplice per portare a fermarsi un attimo e verificare i contenuti, il che di solito presuppone semplicemente di digitare l’oggetto della mail seguito da “bufala”. Perché c’è da dire che le bugie prima o poi vengono smascherate, su questo la rete è praticamente imbattibile. Ma allora perché queste bufale continuano a navigare indisturbate nel Web, per anni? C’è chi continua a diffonderle. Il che presuppone, a meno che non si pensi a forme di teppismo dilaganti tra i contatti più stretti, che quei contenuti vengono ritenuti veri. E la falsità si diffonde. Viralmente.
Anche in rete serve essere alfabetizzati, da qui non si scappa. Sia chiaro: guai a chi tocca la libertà in rete. Ma la rete di per sé non garantisce né la cultura né la verità. E uno dei presupposti ineliminabili perché un sistema democratico funzioni è che ci sia cultura e informazione affidabile. Le potenzialità della rete stanno contribuendo massicciamente alla diffusione delle informazioni, questo è innegabile. Ma chi, oggi, si erge a difensore della democrazia ponendo come garanzia l’infallibilità della rete, mentre diffonde liberamente (quanto velocemente) insulti e manifestazioni di autoritarismo, è una contraddizione in termini vivente. E oggi, proprio per le potenzialità della rete, un “vaffanculo” digitale può fare ancora più paura di un “me ne frego” d’altri tempi.