Il senso perduto dello Stato

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La tragedia di Civitanova Marche, quel triplice suicidio frutto della rabbia e della disperazione, è soltanto l’ultimo episodio, in ordine cronologico, di una sorta di moderna Antologia di Spoon River: un racconto nel quale i protagonisti sono sempre i poveri, gli ultimi, i deboli, coloro che non ce l’hanno fatta e sono stati travolti dai debiti, dai rimorsi o, come in questo caso, dalla vergogna. La vergogna di dover chiedere aiuto, di non farcela da soli, di dover dipendere dagli altri dopo una vita di lavoro; la vergogna del senso di ingiustizia che ti prende alla gola quando vedi che tutti i tuoi sforzi, tutti i tuoi sacrifici e tutto il tuo umile impegno vengono quotidianamente travolti da una crisi apparentemente senza sbocco, senza via d’uscita e senza alcuna possibilità di riscatto per chi è stato inghiottito da questo vortice di miseria e frustrazione.

Tuttavia, è anche un simbolo: il simbolo di una Nazione che ha smarrito le proprie caratteristiche migliori; il simbolo di un’Italia devastata dalla solitudine e dall’incertezza del vivere; il simbolo di una comunità che non è più tale, avendo accantonato gli imprescindibili valori della solidarietà e della fratellanza per consegnarsi ad un becero individualismo di stampo liberista che tanti lutti e tanto dolore ha causato e sta continuando a causare all’intero Occidente.

Ed è, al tempo stesso, l’emblema del totale fallimento di una certa concezione della politica: di quella politica padronale e affaristica che nell’ultimo decennio ha smembrato il Paese riducendolo allo stremo; di quella politica urlata e inconcludente che ha preferito gli slogan ai ragionamenti, la volgarità al dibattito e al confronto e l’arroganza allo studio e alla saggezza di comprendere e accettare le opinioni dell’altro; di quella politica, infine, che ha negato la crisi quando ancora era possibile limitare i danni, raccontando favole e mentendo spudoratamente finché la realtà non si è palesata in tutta la sua mostruosità, rompendo gli argini (talvolta, purtroppo, anche fisicamente) delle nostre dighe di carta e travolgendo tutto e tutti, a cominciare da chi aveva meno mezzi per difendersi dalla piena.

Con una punta di cinismo, si potrebbe sostenere addirittura che, al pari dell’esito delle recenti elezioni, anche il dramma di Civitanova Marche sia l’ineluttabile epilogo del ventennio che abbiamo alle spalle: un ventennio in cui i poveri e i deboli sono stati ignorati e calpestati; in cui l’informazione è stata carente per non dire, talvolta, completamente assente; in cui i “benaltristi” hanno avuto quasi sempre la meglio su chi tentava, in ogni modo, di portare all’attenzione dell’opinione pubblica le piccole catastrofi quotidiane che segnavano la vita di milioni di anonimi cittadini, senza riflettori né titoli di giornale a disposizione, e in cui coloro che hanno continuato, nonostante tutto, ad occuparsi di cultura, lavoro, scuola, università, ricerca e bambini sono stati per lo più lasciati soli, avvolti dal disprezzo e considerati degli illusi o, peggio ancora, dei fessi.

Per questo, a pensarci bene, Bersani non è riuscito a conseguire il risultato che tutti noi auspicavamo: perché si è rifiutato di gridare nella stagione delle urla sguaiate, perché ha detto la cruda verità nell’epoca delle promesse irrealizzabili, perché ha rivendicato il ruolo alto e nobile della politica nella campagna elettorale più brutta che si ricordi a memoria d’uomo e perché ha ribadito costantemente la complessità dei processi decisionali, senza lasciarsi andare alla tentazione del giovanilismo a tutti i costi, delle formule magiche che non conducono da nessuna parte se non nel baratro e del leaderismo sfrenato che altro non è che uno dei frutti avvelenati del devastante modello liberista che sta martoriando l’Europa e gli Stati Uniti dai tempi del duo Reagan-Thatcher e di cui, almeno noi, non ci siamo ancora liberati.

Senza dimenticare l’ondata di populismo con la quale ha dovuto fare i conti: lo stesso che ha trascinato il Paese in quest’invereconda situazione di stallo; lo stesso che induce un non-leader politico a trattare i parlamentari del proprio movimento come se fossero studenti in gita scolastica, portandoli a fare un’allegra scampagnata mentre le aziende chiudono una dietro l’altra e la popolazione si impoverisce ogni giorno di più; lo stesso, in conclusione, che fa dire ad un leader a tutti gli effetti di essere pronto ad appoggiare un eventuale governo Bersani a patto che il Quirinale salga un personaggio che non gli sia ostile o, comunque, sgradito.

A questo punto, di fronte ad un simile sfacelo, credo sia superfluo porsi ulteriori interrogativi o soffermarsi a riflettere sul degrado morale e culturale cui siamo andati incontro negli ultimi decenni.

È opportuno, al contrario, meditare sulla preoccupante mancanza di senso dello Stato che caratterizza oramai una parte consistente degli attori politici, rendendo ingovernabile il Paese, qualunque sia la legge elettorale e chiunque sia il candidato premier del centrosinistra.

Sbaglia, dunque, chi pensa, anche a sinistra, che basti cambiare i nomi sui manifesti per ottenere un risultato completamente diverso e dare finalmente all’Italia il governo stabile e autorevole di cui ha bisogno. La realtà è che non torneremo ad essere una democrazia compiuta fino a quando la politica non sarà nuovamente un confronto di sogni, speranze, ideali, prospettive per il futuro e, naturalmente, ideologie, cioè fino a quando non torneremo ad avere partiti degni di questo nome (al momento, ne abbiamo soltanto due: il PD e SEL) e rappresentanti scelti unicamente in base alle competenze e in seguito ad un ampio percorso politico, perché con l’improvvisazione dovrebbe essere chiaro a tutti che non si ottiene nulla se non disastri.

La vera sfida delle prossime settimane riguarderà il successore di Napolitano, anche perché non c’è dubbio che la scelta, qualsiasi essa sia, condizionerà in maniera decisiva le sorti di questa breve legislatura e la possibilità di far nascere o meno un esecutivo a termine, in grado, come minimo, di condurci fuori dal pantano.

Molti commentatori, a tal proposito, si affannano da settimane nel proporre nomi o nel valutare quelli che, man mano, stanno iniziando a trapelare. Ebbene, pur avendo ovviamente le nostre preferenze, noi non indicheremo alcuna personalità, limitandoci a fornire un identikit. A nostro giudizio, il Presidente ideale dovrebbe avere la tempra di Pertini, la saggezza e l’intransigenza di Scalfaro, la passione civile e l’amore per la cultura e per i giovani di Ciampi e la fermezza di Napolitano. Non stiamo parlando di un semi-Dio, anzi: di candidati con queste caratteristiche ce n’è più d’uno. Perché succeda a Napolitano, però, è indispensabile che determinate forze politiche acquisiscano il senso dello Stato e delle istituzioni che finora è mancato loro e, a dire il vero, l’impresa ci sembra alquanto ardua.


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