BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Il potere della maternità

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Loredana Lipperini è instancabile, gira in lungo e largo l’Italia da quando, a fine febbraio, è uscito per Feltrinelli Di mamma ce n’è più d’una. Un saggio denso, pieno di dati, storie, citazioni, interrogativi e tentativi di risposta, su un tema che non è facile da districare: la maternità, fra ruoli, stereotipi e tendenze; fra destini più o meno scelti, equilibri precari e vite in sospeso fra ecopannolini e poppate; fra blog su cui riversare idee, ansie, consigli e sfoghi notturni. Lipperini, una delle voci di Fahrenheit su Radio3, scrittrice e giornalista, restituisce in queste pagine il confronto serrato, ma anche il conflitto fra i diversi tipi di maternità possibili, rilevando come in questo primo scorcio di millennio “l’essere madre” è tornato a far parte di un presunto ordine naturale delle cose, difficile da mettere in discussione.

Molte donne, troppe, sembrano afflitte da mammitudine acuta, da una mistica della maternità di ritorno, paradossalmente scelta. Qual è la reazione a questa tua inchiesta/fotografia? Nelle tante presentazioni che stai facendo, si ricrea il dibattito acceso fra le due fazioni o le tue critiche vengono accolte?
La mistica della maternità di ritorno è una tendenza generalizzata, non solo italiana. Peraltro prevedibile in fase di crisi economica (si chiama anche gender backlash: il ritorno al passato, o il colpo di coda, in materia di diritti e immaginario). Certo, in un paese come il nostro, a fortissima tradizione cattolica, la mistica diventa davvero tale, e la figura della madre va a coincidere quasi in ogni punto con quella della Madonna, nella funzione di cura e nella funzione salvifica. Parlo di “funzione” perché, sposando questo punto di vista, il femminile viene ridotto a strumento.
La questione del materno è stata a lungo espulsa, confinata in ambito psicanalitico o – per quanto possa sembrare eretico sostenerlo – commerciale: le madri, soprattutto nel nostro paese, sono sole. Non hanno servizi sociali sufficienti, non hanno interlocutori. Vorrebbero più figli se ci fossero le condizioni.
Diventa dunque, in assoluto, comprensibile che a fronte di diffuse difficoltà il “backlash” ci sia e consista nello scegliere la strada della maternità totale. Legittima, intendiamoci: non c’è nessun intento giudicante nel mio libro. L’unica critica che mi sento di avanzare riguarda la diffusa demonizzazione della maternità altrui, laddove si facciano scelte diverse dalle proprie.
Infatti, nelle presentazioni ho, fin qui, registrato soprattutto voglia di discutere e confrontarsi. Le uniche critiche accese che ho ricevuto (in rete, e mai dal vivo) sono venute proprio da donne giudicanti: che, infatti, più che criticare il saggio hanno criticato mia madre (che ha novant’anni, mi batte ancora a poker e alterna la lettura dei miei libri a quelli di Simenon, con mio grande orgoglio).

È sorprendente leggere il tuo libro soprattutto pensando alle donne che non vogliono o non possono avere figli. Entrambi i modelli materni che si scontrano non le prendono in considerazione. Le mamme si sentono onnipotenti, contro tutto e tutti. Che fare?
Non è questione di onnipotenza. È che le childfree, le donne che scelgono di non avere figli, vengono ancora considerate – anche se non apertamente – donne a metà. A loro, ancora oggi, si chiede “come mai?”.
Per non parlare delle infertili, costrette da una legge ignobile come la legge 40 a rivolgersi a strutture di altri paesi se vogliono provare ad avere un figlio, e considerate “non prioritarie” da molte madri “naturaliste”. Non credo sia una questione di onnipotenza, ma di potere: la maternità, che vogliamo o no, è un potere, per non esserne prigioniere, bisogna condividerlo. Con i padri, grandi esclusi dal cerchio magico madre-figlio: e mi sembra che i giovani padri abbiano desiderio di entrarci eccome, in quel cerchio.

A proposito di padri, di potere da condividere, mi aspettavo un maggiore approfondimento sulla genitorialità diffusa, su chi pensa che a crescere i bambini debba essere una comunità, non solo madri e padri per quanto equilibrati e nella divisione dei compiti. Non lo hai fatto perché non statisticamente rilevante come fenomeno, o pensi di farci un libro a parte?
No, non l’ho fatto consapevolmente. Il mio non è un libro risolutivo sul materno, non ne ho le pretese né le competenze: è il racconto di quello che vedo, così com’è avvenuto con i due precedenti, Ancora dalla parte delle bambine e Non è un paese per vecchie, dedicati alle altre età della donna, infanzia e vecchiaia. Credo che di genitorialità diffusa e bigenitorialità debba parlare chi vive direttamente questa esperienza: lo sta già facendo, lo farà ancora. Mi sono limitata ad accennarlo nel capitolo finale, come credo sia giusto.

Da pochissimo è in libreria un altro libro che hai firmato con Michela Murgia [L’ho uccisa perché l’amavo, Editori Laterza, 2013]. Parlate di femminicidio, del perché è giusto usare questa parola. Che relazione c’è fra la retorica della/sulla maternità e la violenza sulle donne?
Non poca. Perché in tutti e due i casi predomina un concetto schiacciante di “natura”. È “naturale” per una donna essere madre. È “naturale” che l’uomo sia cacciatore e la donna preda, e che dunque il primo insegua e la seconda fugga, e magari quando viene raggiunta un po’ di violenza viene vissuta ancora una volta come “naturale”.
Uomini forti e donne deboli, uomini predatori e donne prede. Il femminicidio si chiama così proprio perchè definisce un tipo di delitto che avviene all’interno di una struttura culturale arcaica che ancora non si dissolve. Non tutte le relazioni sono così, non sempre, ma un poco di questa eredità ci riguarda tutte e in nome di quell’eredità non è possibile e nemmeno responsabile continuare a ripetere “a me non succede e neanche a quelli che conosco”. Perché sia la maternità che il femminicidio esigono un “noi”. Esigono comunità, non schegge individuali.

Avete sottolineato l’importanza delle parole da usare. Allora perché chiudete il libro usando il termine “persona”? Il femminicidio è l’uccisione di una donna in quanto donna: non era il caso di insistere su questo? Anche e soprattutto per recuperare il lavoro – fondamentale – fatto dalle femministe sul linguaggio sessuato, sul neutro che alimenta la cultura maschilista?
Il femminicidio è l’uccisione di una donna in quanto donna. Ma le donne, prima ancora di essere tali, sono persone. Non è una scelta casuale.

Sempre sul volume con Murgia: Costanza Miriano o Marcello Mazzola sono il simbolo di un mondo che culturalmente alimenta la violenza sulle donne, fra negazionismo e riduzionismo. Quali altri strumenti possiamo mettere in campo noi che siamo dall’altra parte, che da anni combattiamo per cercare di sensibilizzare l’informazione, i media, gli intellettuali?
Non mi piacciono i simboli, sinceramente. Abbiamo citato due casi, due reazioni (sfuggire ai femminismi e rientrare nell’antico ruolo di sottomissione da una parte e negare i numeri stessi del femminicidio) per dar conto di due fra gli atteggiamenti più diffusi nel dibattito sulla morte delle donne. Gli strumenti, spero, sono stati indicati nel libro: le parole. Riprendere e utilizzare le parole giuste, cominciando dalla scuola e allargando il campo a chi comunica sui giornali e nei libri. Ma anche a chi comunica in assoluto, ovvero tutti, dal momento che Internet fa sì che le parole di tutti siano ormai parole pubbliche.

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