E’ possibile ancora un accordo tra i due maggiori partiti dell’Italia contemporanea – secondo i risultati del 24-25 febbraio 2013 – il Partito democratico con Pier Luigi Bersani, e il Popolo della libertà che ha in Silvio Berlusconi il capo assoluto e carismatico?
E possiamo paragonare i due protagonisti di oggi con quelli che si trovarono di fronte a metà degli anni settanta, il Partito comunista italiano di Enrico Berlinguer e la Democrazia Cristiana di Aldo Moro?
Domande scomode l’una e l’altra ma provocate dall’ora che stiamo vivendo, con l’incontro (quello già fatto e poi di necessità molti altri) tra Bersani e Berlusconi, l’elezione ormai vicina del nuovo presidente della repubblica, la formazione di un governo di “scopo” il più presto possibile cinquanta giorni dopo il voto.
Con la voglia molto scarsa dei parlamentari appena eletti di andare di nuovo al voto e il timore di tanti italiani di ritornare alle urne prima che cambi il Porcellum di Calderoli e si faccia qualcosa per uscire dalla gravissima crisi economica, sociale e morale in cui tuttora siamo.
Bisogna dire subito che la Democrazia Cristiana di Aldo Moro – pur con tutte le contraddizioni che aveva accumulato in 50 anni – non è confrontabile in nessun modo con il Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi. Il primo era un partito, a suo modo democratico, in cui i dirigenti venivano eletti dagli iscritti e si dividevano in correnti abituati a lottare per la leadership. E i principi di quel partito attingevano, oltre che alla vicinanza al cristianesimo e alla Chiesa cattolica, a una cultura politica che aveva contribuito in maniera essenziale alla Costituzione del 1948 e alle leggi approvate in Italia dopo il 1946.
Il partito che ha come leader dai primi anni novanta il cavaliere di Arcore è, invece, espressione compiuta della cultura populista e in larga parte non democratica che ha segnato l’ultimo ventennio.
Berlusconi (a mio avviso, ineleggibile nel parlamento sulla base dell’articolo 8 della legge numero 361 del 1957, che stabilisce l’inelleggibilità, tuttora vigente, per i titolari di concessioni statali di notevole valore economico) è stato ed è in Italia l’interprete centrale dell’ondata populista che ha caratterizzato l’ultimo ventennio nel nostro paese, il creatore di decine di leggi ad personam, tuttora in vigore, l’ostacolo maggiore alle leggi per eliminare i conflitti di interesse, il combattente di una battaglia costante per non incorrere nelle numerose condanne che possono raggiungerlo per frodi fiscali, prostituzione minorile e altri reati legati alla sua vita e al forte disprezzo nutrito, da sempre, per il rispetto delle leggi come della costituzione repubblicana.
Possiamo dire sinteticamente che l’interlocutore del Partito Democratico è profondamente cambiato. Si tratta non del possibile erede del partito cattolico ma invece del prototipo di un populismo autoritario e lontano dalla democrazia.
Ma quale rapporto si può stabilire tra il partito comunista di Enrico Berlinguer e il Partito Democratico di Pier Luigi Bersani ?
A livello di dirigenti sono ormai pochi quelli che hanno guidato quel partito, si trova qualcuno tra i sindaci, tra i deputati europei, tra i parlamentari. Gran parte di loro ricorda poco e ha vissuto ancora meno quell’esperienza. Ci sono alcuni aspetti positivi che non si possono dimenticare: la fedeltà generale – almeno in astratto – ai principi essenziali della Costituzione repubblicana, la rappresentanza di settori importanti del mondo dei lavoratori e, soprattutto l’abitudine a far parte di un partito non personale nè populista.
Certo, in Italia dopo il 1992 non esistono più partiti democratici come molti di noi hanno ancora conosciuto, pur tra le molte contraddizioni che hanno sempre contraddistinto la nostra vita politica. Ma il Partito democratico – nato nel biennio 1989-1991- resta ancora quello più vicino a un’organizzazione di massa tendenzialmente popolare e democratica, anche se ormai – come nelle altre forze politiche – conta troppo il segretario con il suo staff e troppo poco la base popolare. C’è da chiedersi allora che cosa hanno in comune le “larghe intese” di oggi rispetto ai governi di unità nazionale degli anni settanta?
Quasi nulla mi sembra e i rischi di un grande pasticcio, pur di evitare per qualche mese il voto ci sono, malgrado le buone intenzioni dell’uno o dell’altro.