Apprezzare le diversità, rispettarle senza rinunciare alla propria identità, considerare le sofferenze nel profondo, accogliere i deboli, comprendere che il mondo si indirizza verso un cambiamento di giustizia se si parte dagli ultimi. E se le differenze sono queste ben vengano. Poche settimane del Pontificato di Francesco riportano la luce sul segno della speranza che non tutto sia perduto per il futuro dell’uomo nel nostro tempo. Nel tempo degli egoismi, delle sopraffazioni imperanti, del dominio dei mercati finanziari c’è altro. Tanto altro che il nuovo Vescovo di Roma – come preferisce chiamarsi il nuovo Papa arrivato dai confini (dalla fine del mondo”) – quasi a simboleggiare la novità di una Chiesa che si apre totalmente all’unità dei cristiani e al dialogo interreligioso, sta evidenziando con parole semplici quanto profonde e soprattutto con gesti di una pedagogia di un nuovo umanesimo pacifico e solidale.
La Pasqua è giunta nel mezzo delle polemiche politiche e degli scontri tra belligeranti in varie parti del mondo. La Pasqua essenziale è quella che non ha effetti speciali, ma parole e gesti di immediata percezione senza ombra di dubbi, che Francesco ha reso chiari nella lavanda dei piedi del giovedì santo fra i giovani carcerati di Casal del Marmo – con un atto di umiltà e riguardo per la persona o senza pari, senza distinzioni per razza o per religione – e ricordando che il Buon Pastore – colui che la responsabilità – si carica sulle spalle la pecora e ne porta l’odore, va nelle periferie dove c’è sofferenza, cerca e porta verità. Vale per i credenti, ma questo indirizzo ha una sua straordinaria potenza nella valutazione dell’impegno di chi è chiamato a responsabilità pubbliche.
Nel tempo degli egoismi esasperati e delle povertà che crescono ogni giorno, della distruzione dei beni naturali, della spinta alla cancellazione di quelli pubblici (dall’acqua da concedere a pagamento per i profitti di pochi, all’informazione libera e plurale da mettere sotto controllo o comunque da condizionare pesantemente e con ogni mezzo), fiducia e speranza si possono alimentare ad accendere le luci sulle cose che non vano e meritano di essere. Per un interesse generale prima che richiede sacrifici e impegni che vadano oltre l’orizzonte del proprio interesse temporaneo.
Per il mondo dell’informazione – colpito dalla crisi economica, dalle conseguenze di un processo di trasformazione tumultuosa, profittevole ancora per pochissimi, messa in discussione da sconvolgimento sociali e valoriali profondi – accendere le luci sugli ultimi, sui lavoratori, sui migranti, sulla tratta delle persone, sulle periferie e sui propri limiti (su quelli di un modello di facile presa e rapido consumo) è un imperativo categorico. Per la sopravvivenza e per la rinascita di un’idea di informazione come bene pubblico, essenziale affinché ogni persona sia cittadino, non suddito o semplice consumatore da sedurre e spogliare, nella comunità, nel Paese in cui vive.
Non ci vuole molto ma ce n’è bisogno, per essere se stessi e per riuscire a comprendere meglio gli altri, per provare a vivere meglio nella dimensione comunitaria, vita di tutti i giorni e i problemi del lavoro.
In queste settimane troppe invettive hanno o raggiunto giornali e giornalisti. Il profeta della novità politica italiana, il leader del terzo partito, Beppe Grillo, e i pochi “cittadini” del suo gruppo abilitati a parlare, si sono qualificati per ripetuti insulti ai giornalisti e ai media, fino a irridere ai precari, “frustrati”. Cose vecchie, già viste da altri leader in passato, figlie di concezioni elitarie, quando non autoritarie, pericolose, comunque lontane da uno sguardo vero a chi più è ha bisogno di attenzione perché sfruttato o maltrattato.
D’altronde quale sarebbe la colpa che provoca questa ira anche in un tempo di riflessione che si vuole serena? Porsi e porre domande, esigere che l’informazione svolga un funzione di controllo dei pubblici poteri e non viceversa, scoprire dove la novità del terzo partito può e vuole indirizzare la propria azione, dopo la protesta espressa da milioni di elettori. C’è bisogno di novità e di cambiamenti profondi, ma non ci sarà vera novità se prevarrà la voglia di mettere il silenziatore all’informazione libera e di individuare nemici tra i giornalisti immaginando una sorta di regolamento di conti tra occupati (oggi spesso in difficoltà, altro che casta) e giornalisti precari. Le parole hanno un senso e la propaganda, ma anche per i politici, deve avere un tempo limitato.
Ecco la moltitudine di giornalisti professionalmente e intellettualmente onesti non deve mai rinunciare né a porre domande né all’osservazione critica.
Per i giornalisti sono un dono prezioso e insieme un dovere supplementare di responsabilità le parole del Papa giunto dalla “fine del mondo”, che si è rivolto loro chiamandoli “cari amici” (ben sapendo che molti di coloro che stanno seguendo le vicende della sua elezione e della sua nuova missione sono lontani dalla Chiesa e dalla religione cattolica. Un’espressione di rispetto e di gratitudine per il “qualificato servizio”, che ne riconosce rischi e fatiche e ruolo degli operatori dei mass media “indispensabili per narrare al mondo gli eventi della storia contemporanea”.
Riaccendere le luci dell’informazione sui fatti e i problemi profondi della vita delle persone e delle comunità è la vera sfida del nostro tempo.