Ultima chiamata per i direttori: sono interessati al futuro dell’informazione?

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Domanda delle cento pistole: i direttori che ne dicono della crisi dell’editoria? Se c’è un’area della professione da troppo tempo silente sui temi dello sviluppo e della qualità dell’informazione, con le dovute eccezioni, questa è quella dei responsabili delle testate di carta stampata, radiotelevisive e web. Li si è visti sollevare il capo sulla questione della diffamazione (che li riguardava molto da vicino), poi il silenzio.

Quelle decine di colleghi che quotidianamente organizzano il lavoro di migliaia di giornalisti, danno le direttive, scelgono ciò che va in onda, in rete o in pagina, sembrano disinteressati al futuro della libertà di informazione in questo Paese. Alcuni, in questi anni, sono stati il “braccio armato” dell’editore nelle pesanti ristrutturazioni che sono costate centinaia di posti, molti si sono voltati dall’altra parte, pochi hanno provato, più o meno debolmente, a opporsi a logiche puramente contabili che hanno finito per danneggiare anche il loro lavoro.

Nel sindacato, a ogni rinnovo di contratto, si apre uno stanco dibattito su come debbano essere considerati: sono ancora i “primus inter pares” delle redazioni? Sono ormai dirigenti organici al management aziendale e quindi impossibilitati a svolgere un ruolo di mediazione così delicato? Ma il vero interrogativo è un altro: quanto sono autonomi nelle loro scelte di linea editoriale? Quanto sono in sintonia col Paese che raccontano attraverso le testate che dirigono?

Scrive Michele Serra su La Repubblica dell’8 marzo scorso:”La crisi (dell’informazione, ndr) è molto di più (di quello che urla Grillo, ndr). È il frutto di linguaggi logori, categorie di giudizio consumate, pigrizia professionali”. Un’analisi lucida e incontestabile. Che interroga tutta la categoria, ma, per la gerarchia di responsabilità tuttora disegnata dalla legge istitutiva dell’Ordine e dall’articolo 6 del contratto, i primi a doverne rispondere sono loro: i direttori.

Mentre gli editori davano sempre più spazio agli interessi spuri, sacrificando sull’altare della convenienza politica e dell’interesse finanziario il rapporto con i cittadini, i direttori si dilettavano a dare vita a quel circolo esclusivo che somiglia tanto a quello dei manager delle aziende di questo Paese: se tu mi cacci di qui lui mi riprende di là e così via, il ballo mascherato della celebrità. Ma la musica sta finendo e l’orchestra è esausta, sarebbe il caso di cambiare spartito, prima che qualcuno sostituisca gli orchestrali.

Sono convinto che questi colleghi, mi ostino a considerarli tali, debbano assumersi la responsabilità di pronunciarsi sul futuro della professione, sul ruolo che vogliono svolgere, in fin dei conti sulla loro identità e collocazione. C’è ancora spazio per un’”alleanza dei produttori di informazione” che abbiano come obiettivo la rinascita di un giornalismo indipendente e di qualità (valorizzando esperienze e soggetti che già sono su questa strada).

Si facciano forti, i direttori, delle loro redazioni, come buoni capitani radunino l’equipaggio e si mettano sulla rotta della libertà, se questo significherà entrare in collisione con interessi diversi da quelli dei cittadini avranno la possibilità di appellarsi all’articolo 21 della Costituzione e daranno un contributo alla rigenerazione non soltanto della categoria, ma di un intero sistema.

Viceversa, dovessero chiamarsi fuori, o peggio ancora assecondare una deriva di conservazione tanto miope quanto dannosa, allora questo vorrà dire che è arrivato il momento di mettere mano all’articolo 6 del contratto di lavoro. Il sindacato dovrà trarre le conseguenze e togliere loro quel potere da sovrani che, senza l’illuminazione del dialogo con i cittadini e i propri giornalisti, è   soltanto un dispotico esercizio di primazia, per di più anacronistico nell’epoca del consenso orizzontale e del protagonismo civico.


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