Giovedi scorso, 7 marzo, nel corso di “Servizio Pubblico”, la trasmissione diretta da Michele Santoro, si è consumato in diretta televisiva un episodio di violenza che non può essere sottaciuto. E non è un caso che sia avvenuto sul “corpo di una donna”. Ne voglio parlare, – lo ha già fatto Alessandro Cardulli su Articolo 21 – ponendo la questione alle donne che di violenza in tutti i suoi aspetti si occupano, ed alle giornaliste.
Lei è Rosy Bindi, presidente del Partito Democratico, deputata uscente e rieletta alla Camera, componente della Conferenza Donne PD. Ebbene, nella citata trasmissione l’onorevole Bindi è stata oggetto di una lunga raffica di violenti insulti da parte di un altro ospite, mentre il direttore/conduttore non è mai intervenuto per ricondurre la valanga di parole rovesciata su di lei nell’alveo di un corretto confronto di opinioni.
Nei fatti, per un tempo televisivo lunghissimo, questo ospite, ergendosi a portavoce della protesta popolare contro la casta, ha continuato ad ingiuriare la sua interlocutrice, senza un precisa rivendicazione di diritti.
Non un gruppo di operai a difesa di una vertenza sindacale per il diritto al lavoro, non una rappresentanza qualificata del mondo delle piccole e medie imprese strangolate dalla crisi, non una pattuglia di studenti e studentesse inviperiti per l’erosione continua del diritto allo studio, non un comitato territoriale allarmato per l’ultima antenna satellitare installata sotto casa contro il diritto alla salute, non un comitato di base di giovani disoccupati o sottoccupati, di nuovi poveri, di senza casa, di migranti…
No, nulla di questo. Solo un individuo occupato in una lunghissima persecuzione verbale, un atto che potrei definire di stalking in diretta mediatica, contro un’esponente politica, rappresentante di un partito e, in quanto parlamentare, di un’istituzione dello stato.
Da sempre, il pubblico di Michele Santoro cerca e trova nelle sue trasmissioni la voce di chi non ha voce; sa che lì, in quello studio, le libertà di espressione e di informazione sono un punto fermo.
La mia domanda dunque è altrettanto netta: dobbiamo interpretare la pratica dell’insulto, così allegramente presente oggi nella vita politica italiana (tanto che anche la stampa estera si comincia a porre la questione), con i canoni della libertà di espressione? Oppure è lecito allarmarsi?
Penso che quando la protesta non è mediata dalla rappresentanza politica, e si incanala contro un bersaglio generico, additato come l’origine di ogni male, vengono travolte tutte le distinzioni, minacciando gli stessi argini costituzionali a difesa dei diritti collettivi ed individuali. La protesta diventa facile processo di rimozione e autoassoluzione, che legittima ogni prassi, anche violenta, ogni semplificazione e in nome della sua generica giustezza.
Ma non c’è giustizia senza Costituzione, e proprio la nostra Costituzione delinea chiaramente il campo all’interno del quale la libertà di espressione si contempera con i principi della rappresentanza e della sovranità, un equilibrio unico e delicato di diritti e doveri che danno sostanza alla cittadinanza.
Ai tempi di Berlusconi, abbiamo vissuto una stagione dell’informazione politica televisiva basata sulla degenerazione del confronto in sterile scontro verbale: motteggi, grida, e voci che si sovrapponevano alle voci.. Non erano le voci della protesta, erano le stesse voci della propaganda politica berlusconiana, fondata sulla delegittimazione dell’avversario. Monti, è stato un passaggio in aplomb. Adesso è la volta del leader del Movimento 5 Stelle che che frulla le parole d’ordine dei movimenti di protesta con gli insulti della rissa di strada, rimbalzando veloce e moltiplicandosi dal web alle piazze fino al Parlamento.
Dobbiamo rassegnarci a che diventi modello vincente dell’espressione della protesta politica sugli schermi televisivi?
A “Servizio Pubblico”, Rosy Bindi, da grande donna e politica, è rimasta ad ascoltare gli insulti, persino quando sono diventati pesante oltraggio alla sua vita, alle sue scelte politiche, alla sua immagine. Poi, si è ripresa la parola, senza aiuto alcuno, e ha riaffermato un’idea e una prassi politica che sono quelle che le appartengono e che resistono. Così facendo, ha riportato al centro dello studio televisivo l’idea e la prassi stessa della democrazia, e di una rappresentanza politica responsabile e solidale che – piaccia o non piaccia – ci appartengono, resistono, non fanno sconti, ma non sono per nulla disposte a cedere alla tempesta perfetta del disordine pianificato.
Infine, le domande che non riesco a mettere da parte: sarebbe successo egualmente, se al posto di Rosi Bindi ci fosse stato un uomo? Perchè, se ci siamo tanto arrabbiate quando Berlusconi la offese come donna – chi non se lo ricorda? -, non ci arrabbiamo adesso alla stessa maniera? Quanto pesa sulla conquista della libertà l’assuefazione al virus mutante della violenza?
Al mattino dello stesso giovedi, le elette del Partito Democratico si erano date appuntamento alla sede nazionale per ricordare l’Otto marzo con il segretario Pierluigi Bersani, cominciare a ragionare sull’impegno parlamentare che le aspetta, scambiarsi le prime riflessioni. A partire da una lettura articolata del voto dalla parte delle donne (“dove non siamo state capaci di raccontarci, e perché”), sino alla prima analisi delle azioni da intraprendere in parlamento. Qui, il dato più evidente sarà l’aumento della percentuale femminile, con le Democratiche al primo posto tanto sul piano del numero di elette, quanto sul piano del rinnovamento generazionale – dato sottolineato tra l’altro dal segretario nel suo intervento.
A partecipare all’incontro, durato tutta la mattinata ed oltre, sono state in tante. Tantissime alla prima esperienza parlamentare, come Michela Marzano, Marilena Fabbri, Pina Maturani, Monica Cirinnà, Valeria Fedeli, Elisa Simoni, Roberta Agostini, portavoce della Conferenza Nazionale Donne, eletta alla Camera dei Deputati, che ha aperto i lavori declinando alcune delle parole chiave: lavoro e violenza contro le donne in primo piano; quindi innovazione, cambiamento, relazioni, comunicazione.
Rosy Bindi è intervenuta a chiusura dei lavori e, riprendendo anche l’intervento di Marzano su “donne, differenze e linguaggio della comunicazione”, si è soffermata su quest’ultimo punto, mettendo al centro del processo di cambiamento le dinamiche di comunicazione e scambio tra donne in politica e società. Un passo in avanti, uno scatto in più rispetto alla denuncia dell’immagine delle donne nei media, esplosa il 13 febbraio con la manifestazione di Se non ora quando, legata alla questione “ Tv e Corpo delle donne” degli anni del Berlusconi leader politico e patriarca mediatico. Un dibattito che in questi anni ha coinvolto ampi strati sociali, è presente nelle famiglie e nelle scuole, nelle università, tra le associazioni, tre le giornaliste, nel movimento femminista, nel mondo del lavoro, è stato seguito e partecipato anche dalle militanti PD, senza però che si sia ancora riuscite a portare a sintesi le richieste “dal basso” con un progetto concreto, capace di dare risposta.
In questo quadro, si colloca anche il ragionamento sul linguaggio utilizzato dai media nella narrazione dei fatti di violenza contro le donne, momento centrale nell’educazione a nuove relazioni tra i sessi, che molte delle elette mettono ai primi posti nel programma politico con cui arrivano in parlamento. Dove, tra il lavoro che le attende, ce n’è uno che proprio la trasmissione di Santoro ha messo in luce. Si tratterà di raccontare alle elette del Movimento 5 Stelle – che si proclamano “cittadine” e non “onorevoli” – questa “storia politica” ed il suo legame profondo con la società civile delle donne e la storia della democrazia nel nostro paese. Dialogando nel segno della differenza che non prevede slogan, insulti, e certamente violenza di alcun tipo.