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L’eredità di un servitore dello Stato

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Antonio Manganelli è stato un organizzatore, uno stratega e un innovatore. Tre qualità che hanno fatto di lui un servitore dello stato amato e soprattutto stimato dai suoi centomila poliziotti. Organizzatore, perché uomo di squadra, sempre legato ai suoi investigatori. Stratega, perché collaborando con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ne condivideva la visione della lotta a Cosa Nostra, nel senso dell’aggressione ai patrimoni criminali e del ruolo dirompente che avrebbero avuto i pentiti nel contrasto ai clan siciliani e al sistema di potere politico-mafioso. Innovatore, perché credeva nella trasparenza dell’istituzione che guidava, e sapeva caricarsi di responsabilità non sue, come quando, dopo le condanne definitive per il G8, disse che era venuto il momento di scusarsi con i “cittadini che hanno subito danni e con quelli che, avendo fiducia nell’istituzione-polizia, l’hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato ed esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza”. Ma intanto, aveva già riformato la scuola di formazione per la tutela dell’ordine pubblico. Manganelli ripeté la parola scusa anche scrivendo alla mamma di Federico Aldrovandi, il ragazzo morto dopo un pestaggio ad opera di alcuni poliziotti. Non poco, per un servitore dello stato. L’eredità che lascia al Paese non è solo quella di un poliziotto che ha scalato l’apparato della sicurezza grazie ai suoi meriti, ma è racchiusa anche in questo monito, lanciato pochi mesi prima di morire: “in un quadro di instabilità politica ed economica le forze di polizie sono chiamate ad un improprio ruolo di supplenza”.


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