Fili che s’intrecciano. Fili di diverso colore: blu, rosso, grigio e giallo. Fili che si uniscono, si dividono, come se lei, Maria Stornaiuolo, fosse il demiurgo dell’esistenza umana tutta. Colei che muove i fili delle vite di ognuno. Vite precarie, prima di tutto. Perché in “Le ore della mia giornata” di Ciro Marino, adattamento e regia di Carmen Femiano, luci di Ciro Di Matteo, musiche di Max Carola e scenografia di Giuseppe Zinno in scena alla Sala Ichos di San Giovanni a Teduccio a Napoli fino al 10 marzo, la protagonista, interpretata da Tina Femiano, racconta il quotidiano di tutti coloro che affollano la sua giornata. Si comincia dal mattino, quando prende un treno della Circumvesuviana per andare a lavorare a San Giuseppe Vesuviano, paesino dell’hinterland partenopeo, fino a sera, quando torna a casa stremata ed ha solo la forza di guardare un po’ la televisione. Il contesto in cui agisce la protagonista è apparentemente scarno: una scenografia semplice quanto realistica, in cui la vita umana è quasi simbolo di una catena di montaggio, dove la figura femminile aleggia come se osservasse da un’altra dimensione la realtà circostante cui dà linfa un meccanismo fatto da una cornice tenuta su da cassette di ferro portabottiglie. Da un lato all’altro del palco Maria si muove, rivolgendosi al pubblico in un lungo monologo, che non è mai scontato né pleonastico nei suoi concetti. Una famiglia, quella della Stornaiuolo, operaia a nero in un opificio in mezzo ai campi dell’area vesuviana, “che se non sai che è una fabbrica manco te ne accorgi da fuori”. Un universo dove la donna trascorre le ore della sua giornata, insieme ai bambini asiatici, alle balie autoctone che badano loro, ai titolari cinesi, “che non alzano mai la testa” e mangiano e dormono in quell’ambiente dove niente è a norma, figurarsi i contratti dei lavoratori. In sottofondo, mentre Maria tratteggia i tipi umani che costellano la sua quotidianità, da mattina a sera, gli studenti precari che incontra sul treno, le ragazze ucraine che incrocia nello stesso vagone, i suoi tre figli, “uno più bello dell’altro” che studiano e sognano un futuro migliore, il marito che “si ammazza di lavoro, pover’uomo, per quattro soldi”, riecheggia il suono di una melodia che richiama alla mente la tradizione classica napoletana cui si unisce quella tipicamente cinese.
Una regia, quella di Carmen Femiano, che ha adattato mirabilmente il testo di Ciro Marino, sviluppando il carattere della protagonista, che disdegna la politica in tv, “perché tanto pure se si scoperchiano scandali, il giorno dopo non cambia nulla. E allora non è meglio vedersi il Grande Fratello o una puntata?”. Quella che crede (nel vero senso della parola, tanto che “Gesù Cristo!” diventa un suo costante intercalare) che i preti pedofili siano una pura invenzione della gente, perché lei non crederebbe mai che “don Gennaro, il parroco del paese, possa far male a un bambino. Quelli i preti fanno solo del bene”. O quella che arrotonda il magro bilancio familiare, facendo aggiusti come sarta e non prendendosi nemmeno un soldo da una madre che ha il figlio con la leucemia.
Tina Femiano diventa così emblema non solo delle donne operaie, sfruttate ogni giorno da datori di lavoro venuti dal Sol Levante, ma della precarietà stessa della vita umana. Quella che si aggrappa alla speranza, quando di un piccolo cinese di soli tre anni non le resta ormai che il ricordo di un sorriso stampato sul volto. E quella manina con cui manda un bacio alla sua balia napoletana. Un dolore che la Femiano trasmette magistralmente al pubblico, che non può nascondere l’emozione dietro gli applausi che scrosciano al calare del sipario.