Riprendiamo il cammino. Due incontri seminariali, uno a Senigallia (sabato 16 all’auditorium San Rocco, info: www.semina2013.wordpress.com), un altro a Venezia (venerdì 22 all’Università di architettura info: fondamente@mail.com), organizzati da associazioni e comitati locali sui temi della democrazia dal basso e dell’autogoverno, che vedranno la partecipazione di molte persone impegnate sia sul versate della riflessione teorica che su quello delle pratiche sociali (tra cui Franco Arminio, Marco Revelli, Pierluigi Sullo, Olimpia Gobbi, Mario Pezzella, Claudio Giorno, Giuliana Beltrame, Anna Paola Peratoner, Davide Biolghini, Andrea Morniroli, Valerio Balzametti, Anna Pizzo, Mary Pazzi, Sergio Labate, Dino Costantini, Maria Rosa Vittadini, Giampietro Pizzo), segnalano il desiderio diffuso voglia di riprendere i fili interrotti dalle elezioni.
Lo tsunami Grillo ha modificato l’orografia del territorio politico nazionale obbligando tutti a ritracciare i propri percorsi, ma la marcia dei movimenti, dei comitati, dei collettivi di iniziativa sociale, dei gruppi di cittadinanza attiva non ha motivo di fermarsi.
Sicuramente l’irruzione nel parlamento di una forza politica che ha fatto proprie molte delle proposte dei movimenti contribuirà a dare maggiore peso alle vertenze in corso. Finalmente vi sarà nelle istituzioni una rappresentanza di soggetti fin’ora emarginati, quando non apertamente repressi: pensiamo solo ai molti No Tav d’Italia, ai pacifisti, ai movimenti per un “reddito garantito” e per i beni comuni. Non è certo una novità da sottovalutare. Ma la questione centrale che i movimenti stanno discutendo da anni (e non solo in Italia, se pensiamo agli indignados, ad Occupy Wall Steet, ai medi attivisti, alle primavere arabe, allo zapatismo, ai movimenti indigeni e contadini…) è sul rapporto tra movimenti ed istituzioni, tra le forme organizzative di movimento e le forme di democrazia rappresentativa. Si ha quasi l’impressione che mentre i movimenti si sono attardati incerti in un dibattito senza fine (storico, teorico) e in esperimenti fallimentari (ultimo, “Cambiare si può”), le cose siano andate avanti per altre strade, fuori da ogni progettualità e controllo dei movimenti stessi.
In molti, nei discorsi che si stanno facendo in questi giorni nelle associazioni e nei comitati, hanno detto e scritto che Grillo ha canalizzato il flusso delle ribellioni, dei malcontenti, delle indignazioni della gente, ormai incontenibili dalle sclerotiche forme dei partiti tradizionali. Ci si interroga se ora il M5S (avendo scelto la via della partecipazione elettorale) non abbia come inevitabile esito anche la parlamentarizzazione delle proteste, oppure se il perdurare di un suo rifiuto a partecipare al gioco della mediazione politica istituzionale non lo conduca alla ininfluenza. C’è quindi chi invita i “grillini” a “capitalizzare” in fretta la loro forza per “portare a casa” i maggiori risultati legislativi possibili e chi invece li incita a “tenere duro” fino a rovesciare il tavolo e cambiare le regole del gioco, cioè, i connotati costituzionali della democrazia rappresentativa a favore di forme partecipative e deliberative radicalmente diverse. Ci ricorda Manuel Castells (su Internazionale dell’8 marzo) che “Grillo vuole reinventare il sistema politico, sostituendo l’attuale parlamento con un sistema di decisioni popolari fatto di assemblee elettive locali, delibere e voto in rete, e leggi proposte su iniziativa popolare”.
Difficile prevedere come andrà a finire, se i “grillini” cederanno alle interessate sirene del Pd-Sel e si assumeranno la “responsabilità” della quota parte di potere che l’elettorato gli ha concesso, in nome della governabilità, dell’emergenza economica e persino della sicurezza nazionale, oppure se si assumeranno il rischio di perdere tutto raddoppiando la posta e andando ad altre elezioni per conquistare la mitica quota del 51% dei seggi parlamentari che, secondo Grillo, consentirebbe di avere un “parlamento dei cittadini”, libero dalle mediazioni parassitarie partitiche. All’obiezione se quindi il M5S si candida ad essere il partito unico degli italiani (finalmente pacificati), Grillo risponde come avrebbe fatto Lenin a proposito della “dittatura del proletariato”; anch’essa, infatti, come il M5S, si sarebbe sciolta non appena si fosse consolidato il governo del popolo. Oppure, mi viene in mente la prima Lega di Miglio che faceva le primarie mettendo in lizza fantomatiche liste dei “comunisti leghisti”, dei “cattolici leghisti”, delle “femministe leghiste” e così via. L’idea delle “repubbliche popolari” ha il difetto di ridurre gli individui a cittadini indifferenziati. I dispositivi tecnici della cyberdemocrazia aumentano, non riducono, i rischi della estraneazione e della manipolazione. L’agorà dell’ideal tipo di democrazia potrà mai essere una piazza informatica? Casaleggio si immagina che il web possa trasformare la politica in un “un sistema di saggezza unificata” in cui spariscono non solo i partiti, ma anche ideologie e religioni. Quindi viene a meno ogni motivo di conflitto. Un futuro orwelliano ci attende! Non è solo una “democrazia senza partiti” (come auspicava Adriano Olivetti, Simone Weil e molti altri), ma una società organica di individui senza connotati di classe, di genere, di età, di luogo… Escono dal parlamento nani e ballerine, entrano ingegneri informatici.
Ma non c’è da scherzare. Sono convinto che il successo del M5S sia dovuto proprio al fatto di essere riuscito comunque a tematizzare la crisi non più mascherabile e irreversibile del sistema della rappresentanza e di aver fatto una proposta che nel bene o nel male affronta il problema di petto. Chi pensa di “integrare” i grillini cedendo qualcosa solo sull’agenda programmatica del governo e immolando qualche privilegio della “casta”, temo, si faccia delle illusioni. Grillo, se non vuole tradire le aspettative che ha creato, è costretto ad ottenere qualche cambiamento di caratura istituzionale, di tipo costituente.
Ora, la galassia dei nuovi movimenti sociali, le innumerevoli minoranze in lotta per il riconoscimento di loro parziali diritti (sessuali, di cittadinanza, territoriali…), i soggetti dell’altra economia che non si vogliono rendere funzionali al sistema tecnico-economico del mercato, le donne e gli uomini che faticosamente tentano di sottrarsi ad ogni potere eteronomo e desiderano costruirsi un piano di vita coerente con i principi della sostenibilità ambientale e dell’equità sociale, tutte e tutti costoro sono di fatto tagliati fuori dal gioco politico che sta avvenendo sopra (e forse contro) le loro teste. La responsabilità non è né di Grillo, né di Vendola, né di nessun altro, ma dell’incapacità dei movimenti stessi di “mettersi in relazione comune” ed elaborare e praticare una proposta di democrazia più evoluta, sostanziale, dal basso. Una proposta capace di costringere i poteri costituiti (economici, amministrativi, religiosi) a fare i conti direttamente (senza attendere che il M5S o chiunque altro conquisti il controllo del Palazzo d’inverno) con le istanze delle popolazioni. Un processo di confluenza sulla base di “schemi di cooperazione e di coordinamento tra le pratiche” (Michael Hardt in Creare il comune, in www.democraziakmzero.org, febbraio 2013). Ovvero, inventando “forme organizzative di autodeterminazione, autoeducazione, auto-trasformazioine” (John Holloway, idem). I “soviet del fare” sono molto diversi dai “cybersoviet” della rinomata ditta Casaleggio e Associati. I primi esprimono pluralità, protagonismo e autonomia, i secondi “il lato oscuro della rete” (Michel Bauwens, il manifesto del 8/2/213). Certo, per riuscirci serve un’idea non solo dei commons, ma anche del “bene comune” che smonti il dogma della sovranità unica e indivisibile a capo dello stato-ente-nazione.
I due seminari ricordati all’inizio si propongono di indagare sulle cause profonde cui è giunta la crisi delle istituzioni rappresentative (governi, partiti, apparati pubblici) e sulle possibili vie di uscita a partire dai principi ispiratori della democrazia come processo di estensione in tutti gli ambiti delle libertà e dell’uguaglianza di ogni essere umano. Un percorso di colleganza dal basso fra associazioni, comitati che intendono pensarsi anche come soggetti di governo partecipato dei territori.