di Nadia Redoglia
Ci fu il tempo per le streghe, non quelle bruciate, ma quelle che tornavano, furono mimose per occhielli e capelli, seguirono “postine”, “vigilesse”, “soldatesse”, “astronaute” per pari opportunità e “ministre” per quote rosa mescolate tra dive coscelunghe e manager in carriera tailleur e tacchi a spillo per i film, poi furono le assatanate nei pub e discoteche per infilare euri nei tanga dei figaccioni e intanto i mazzolini di mimose prolificavano ai semafori insieme alle bustine per tossici o si trasformavano giusto in spruzzi folcloristici da aggiungere alle sofisticate corbeille per l’8 marzo…
Dalla notte dei tempi le femmine sono madri per proseguire la specie, ancelle per accudirla, guerriere per proteggerla, geishe per soddisfarla.
Tutte le loro altre infinite espressioni, in parte già ottenute per “doverosa concessione” dalla civiltà, al momento stanno ancora ferme al genere ibrido. La terminologia del genere maschile è da sempre consolidata e s’armonizza alle nostre orecchie, ma quando si tratta di rivolgersi al femminino avvocato/vigile/soldato/ingegnere/ministro/giudice ecc. ecc. vengon fuori imbarazzanti “essa” e “a” finali da brividi, per non parlare dell’eroe che resta ancora vezzosamente eroina. Se (ancora?!) siamo al punto d’aver bisogno di ben specificare il genere di ciò che, per sua natura, può essere solo neutro, allora stiamo ancora nell’era: l’Uomo è. La femmina è per…
Quanto alla Donna?