Nell’ambizioso e controverso film di Mario Martone, “Noi credevamo”, Cristina Trivulzio di Belgioso appariva – nella grande interpretazione di Anna Bonaiuto, misto di sorrisi magnetici e chiaroscuri dell’anima- una meteora “bella e gioiosa”, appena oscurata da un segreto velario di trascorsi indicibili, di sensualità femminile sublimata nella forzata rinuncia e nell’esercizio critico dell’intelletto: in quella misura che, anche in ambito risorgimentale, era inopportuna alla donna d’alto lignaggio
Bella, giocosa, inossidabile -nella gioia quanto nel dolore- torna ad essere- sui praticabili del Teatro Vascello di Roma- questa creatura notturna dalle mille sfaccettature, eccentrica patriota e anticlericale agguerrita: autrice traduttrice e mecenate di cospiratori, carbonari e scrittori di pamphlets , di cui fu amante generosa e fremente musa ispiratrice. Nella rinnovata, sussultorea incarnazione di Anna Bonaiuto (tesa e risonante come corda di violino), Cristina di Belgioioso è una aristocratica nero vestita e senza particolare attaccamento al suo lignaggio “impegnata a ripercorrere un’esistenza animata dal sogno dell’Italia unita”. Ricchissima per nascita, sposata a sedici anni con un avventuriero di pari lignaggio (da cui si separerà a venti), Cristina ripartisce la sua vita d’esule tra una ‘scapigliata’ Parigi dove è attrice e pittrice (scoprendo lì anche la gioia della maternità) e la ‘cruda’ Italia nelle cui martoriate terre del nord accoglie malati e diseredati, edificando per lori ospedali ed orfanotrofi, “prototipo di quella generazione di santi sociali che avranno in Torino la naturale culla”.
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Una leggenda dimenticata? In parte sì, ma senza alcuna area celebrativa né pretesa di riscatto dall’auto-dannazione che, per certi versi, la Belgioso si inflisse. Ciò, in particolare, grazie alle virtù colloquiali,mimetiche,sobriamente naturaliste (intrise di autoironia) con cui la Bonaiuto cesella ‘dal di dentro’ un personaggio ‘esposto’ alla retorica del travisamento, dell’ ‘eroina ad ogni costo’.
Nel racconto monologante di Gianfranco Fiore si umanizzano infatti i contorni di una figura ‘leggendaria suo malgrado’ : minata nel fisico dall’epilessia prima, da sifilide ed idropisia poi (ma anche animata da una costante energia che la porta ad essere una infaticabile viaggiatrice, anche quando la fortuna economica verrà meno) l’esistenza di Cristina, vissuta sempre con grande energia e disponibilità di cuore (strabiliante la sua attitudine ad innamorarsi) si sostanzia di atti inimmaginabili e di estremo coraggio: come quando, accoltellata da un amante furioso, trova la forza di cucirsi essa stessa le ferite.
Scrittura scenica di impianto lineare, non apologetico, moderatamente evocativa e senza epico osanna, “La belle ioyeuse” espone l’umanità di una donna ‘nella sua totalità di contraddizioni e testardaggine’ -che rifugge all’idea di farsi personaggio storico. Poiché, nonostante il suo ‘somigliare a Bradamente’ (quel suo spirito combattivo ed errabondo) ciò che emerge in filigrana è l’orgoglio, la gelosa riservatezza che Cristina riserva alla sua vita interiore ed alle gesta che –per darne difesa- è costretta a porre in atto. Lei destinata altrimenti ad una vita di routine nobiliare, fra cene galanti e soirée scaligere, adesso è sola in scena con un baule da cui estrarre qualche oggetto di uso comune e una sedia su cui sprofondare per la finale ammissione di come a spaventarla non sia la morte, ma l’oblio. Stremata e vulnerabile “la bella gioiosa” torna ad essere la donna completa e idealizzabile che il mistero d’una vita ‘fuggiasca e romita’ ha le ricamato addosso: per l’ipotesi di un mito non richiesto.
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“La belle joyeuse” di Gianfranco Fiore. Con Anna Bonaiuto. Roma, Teatro Vascello